Studiare dai gesuiti: a scuola di adattamento?

Da (quasi) cinquecento anni c’è motivo per parlare della Compagnia di Gesù, immaginarsi ora che il papa è un gesuita, primo della storia. Negli ultimi tempi si è evidenziato come abbiano studiato al gesuitico Liceo Massimo di Roma sia il premier Mario Draghi, sia la neonominata capa dei servizi segreti italiani, Elisabetta Belloni. Sono gli ultimi due esempi di una lunga serie, tanto che ci si chiede: perché dalle scuole della Compagnia sembrano uscire persone particolarmente abili a gestire il potere?

Compagni di Gesù

Fondato da Ignazio di Loyola e da pochi altri nel 1540, l’ordine fu subito visto con sospetto per il nome scelto, quel «Compagnia di Gesù» giudicato dai contemporanei un manifesto di arroganza e supposto luteranesimo, visto il riferimento diretto ed esclusivo al Figlio di Dio. La diffidenza si è rafforzata nel tempo e quando si tratta di gesuiti capita sovente anche oggi di ascoltare storielle costruite attingendo a piene mani dalla inesauribile riserva dei luoghi comuni. Sono ambigui, falsi, menzogneri, imbonitori… ma cosa ci dice la storia?

Ignazio non insegnava a «dire la verità mentendo e mentire dicendo la verità», ma chiedeva di agire con il cuore, con lo spirito e con la pratica («il nostro modo di procedere»). Erano parole di Jerónimo Nadal, uno dei suoi primi compagni. Cosa significa? Prima di mettersi all’opera, spiegava Nadal, serve trovare la giusta combinazione tra la rigida osservanza delle norme e la flessibile condotta consigliata dallo stare nel quotidiano. Adeguarsi alle circostanze è molto gesuitico e non è scontato si tratti sempre di inganno: il voto di povertà individuale si è confrontato con la necessità di gestire scuole e interi villaggi; l’indipendenza ha dovuto adeguarsi a strette connessioni con il potere secolare; la proibizione di accettare cariche ecclesiastiche senza il permesso del papa pare quasi uno scherzo, oggi che un gesuita è papa.

Il caso delle scuole spiega bene la flessibilità del «modo di procedere». In origine, Ignazio aveva escluso esplicitamente l’impegno nell’insegnamento, ma le esigenze del suo tempo lo indussero a ripensarci e la fortuna della Compagnia di Gesù si è costruita in buona parte sui banchi delle scuole e sulle cattedre universitarie. Potremmo vederla come una contraddizione, ma saremmo probabilmente più corretti propendendo per la capacità di adattamento.

Scuole

Il nucleo originario dei futuri gesuiti si era conosciuto studiando a Parigi e da quella esperienza Ignazio prese ispirazione nel costruire, non da solo e per prove ed errori, un sistema educativo nuovo. Ci volle parecchio tempo a trovare la quadratura del cerchio, accadde nel 1599 con la Ratio studiorum Societatis Iesu (Ordinamento degli studi della Compagnia di Gesù), pubblicata quando i suoi ideatori erano tutti scomparsi da tempo, sostituiti da una seconda e una terza generazione di confratelli.

Si trattava di un elaborato regolamento destinato a disciplinare per più di due secoli un’attività scolastica concentrata soprattutto su quelle che per noi sono le scuole superiori. L’istruzione elementare preferivano lasciarla ad altri, a eccezione dei casi di luoghi in cui era impossibile trovare un maestro. Quella universitaria era prevista ma considerata come naturale sbocco di quanto fatto prima nei collegi. A organizzare l’ordinamento ci avevano messo cinquant’anni, questo per dire come la fretta non sia nelle caratteristiche del loro agire. La scelta fondamentale fu quella di aprire gratuitamente le proprie aule non solo agli aspiranti membri della Compagnia, ma pure ai giovani, tutti maschi, desiderosi di garantirsi un’istruzione solida, adatta alla formazione delle élite.

Pare abbia funzionato. Il sistema della Ratio prevedeva solo insegnanti gesuiti e mirava a fornire gli strumenti necessari per scrivere un latino corretto ed elegante, per conoscere e utilizzare al meglio la retorica ciceroniana. Ci si accontentava della perfezione. Essere in grado di convincere l’uditorio con argomentazioni raffinate era un’abilità indispensabile non solo per chi nella vita adulta sarebbe stato impegnato a predicare e insegnare, ma anche per quanti si immaginavano destinati a governare. Non bastava, però. Per temprare i leader del futuro serviva ugualmente stimolare la competizione. Il calendario scolastico era scandito da sfide e presentazioni pubbliche pensate per far risaltare e premiare le capacità individuali. Il regime delle punizioni si basava in buona parte sulla denuncia e sull’osservazione reciproca degli studenti. I migliori in condotta potevano castigare gli altri.

Ostacoli

I problemi più grossi emersero soprattutto in Francia nel confronto con la cultura giansenista e illuminista. Dai gesuiti studiarono Cartesio, Molière, Voltaire, Diderot e persino Robespierre. Furono spesso gli stessi ex studenti a mettere alla berlina la proposta culturale offerta nelle scuole che ben conoscevano; le loro opinioni si diffusero ovunque, concentrandosi in particolare su due aspetti. Primo, si bollavano come anacronistici il monopolio dei testi classici greci e latini e la scelta del latino quale lingua principale (in moltissimi casi unica) nei programmi d’insegnamento. Secondo, ancora più di passato odorava l’insistenza sull’autorità di Aristotele in metafisica, logica e fisica: l’avanzamento delle conoscenze scientifiche garantito da scienziati come Galileo e Newton aveva dimostrato con inappellabile autorevolezza l’esigenza di superare l’aristotelismo. Singoli gesuiti avanzavano in maniera tutto sommato indipendente sulla strada della scienza, ma il loro genio personale non era in grado di scardinare le chiusure dell’ordine, che, lo abbiamo visto, prima di cambiare ci pensava per decenni. Come spiegare questo doppio binario, questa distanza tra rigida posizione istituzionale e libera ricerca individuale?

Adattamento

Il gesuita viene frequentemente rappresentato come portabandiera dell’obbedienza. Nella propria abbondante corrispondenza, Ignazio scrisse che nel sistema gerarchico della Compagnia l’inferiore in grado deve lasciarsi guidare dal superiore perinde ac cadaver, quasi come fosse un cadavere. Non è come sembra. Gli slogan aiutano a memorizzare i concetti, ma non dicono tutto e Ignazio affermò molte altre cose, indispensabili a circostanziare un’espressione così forte. Obbedire, chiariva, non significa rinunciare completamente all’esercizio della propria volontà e della capacità di comprendere. Prima di obbedire, è lecito discutere, vivendo un’esperienza spirituale ispirata dalla realtà. Sempre la realtà, ecco il riferimento continuo del gesuita. Lo chiamava «discernimento» e chiedeva ai suoi di essere «contemplativi nell’azione». Ciò non indica certo la disponibilità a lasciarsi portare dal vento senza avere una linea di condotta, ma quella al confronto e alla mediazione, con gli altri e con se stessi. È questo un atteggiamento che ai gesuiti è costato cattiva fama, accuse di camaleontismo e persino la soppressione, sancita da papa Clemente XIV nel 1773.

La ricostruzione seguì dopo quarant’anni, decisa da un altro papa (Pio VII, 1814). Alla rinascita conseguì pure l’aggiornamento della Ratio, sempre con ritmi non da centometrista (1832) e con forme non definitive, adatte ai tempi. Nessuno credeva più all’assoluta omogeneità degli studi; divenuta la scuola uno degli interessi primari dei governi secolari, bisognava essere capaci di accomodare. Il rinnovamento ebbe (e ancora ha) le conseguenze più rilevanti negli Stati Uniti, dove i gesuiti fondarono e diressero importanti scuole superiori e università, dove l’idea della gratuità dell’istruzione è stata ampiamente superata. Ma le scuole gesuite continuano in tutto il mondo, anche senza il latino e la retorica ciceroniana, ad occuparsi di lettura e comprensione della realtà socio-politica, a insegnare la ponderatezza del giudizio e l’equilibrio nelle scelte, a stimolare l’ambizione, a essere pronti a gestire il potere. A misurarsi con la realtà, senza timore di modellarla.

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