L'ex viceministro leghista Edoardo Rixi è stato assolto in appello dall'accusa di peculato. In primo grado era stato condannato a tre anni e cinque mesi. La formula è netta: "Il fatto non sussiste". In attesa delle motivazioni, va rilevato un dato e posto un problema. Il dato è che in appello non sono state nuove prove a scagionare l'imputato. Insieme a Rixi sono stati assolti tutti i coimputati (decine), appartenenti a diverse forze politiche, tutti insieme condannati in primo grado. Siamo quindi di fronte, come nel caso Eni descritto ieri su queste pagine da Stefano Feltri, a un tema di qualificazione giuridica di fatti accertati. Spendendo i fondi a disposizione dei gruppi consiliari regionali per pranzi, pasticcini, birre, bottiglie di vino, candelotti fumogeni per accompagnare una manifestazione di tassisti, e via enumerando, Rixi e i suoi colleghi del consiglio regionale della Liguria hanno commesso peculato? Cioè (art. 314 del codice penale) si sono appropriati di denaro pubblico di cui avevano la disponibilità? Sì per i giudici di primo grado, no per i giudici d'appello.

Vedremo in Cassazione. Ma il problema da porre subito è che l'Italia non ha un sistema di controlli e sanzioni - e non si parla solo del codice penale - in grado di trattare la correttezza dei colletti bianchi: vale per i politici e ancora di più per i reati economici. Il caso Rixi, indipendentemente dal giudizio di innocenza o colpevolezza delle opposte tifoserie, è esemplare. L'Italia non ha un sistema di regole comuni che consenta ai cittadini elettori di sapere se il tal politico è un farabutto o una persona perbene. Il codice penale è per sua natura rozzo, adatto a reprimere i reati semplici ma non a distinguere sfumature che restano affidate all'interpretazione dei giudici. E i giudici si adeguano allo spirito dei tempi che oggi, per esempio,  considera normale l'uso di denaro pubblico per pagare cene elettorali.

Le istituzioni politiche ed economiche non hanno un proprio sistema di regole sulla probità e si affidano all'ormai stucchevole gioco delle parti con i magistrati, sempre più loro complici, come ci insegna il caso Palamara: la procura accusa, il politico protesta, il giudice assolve. Infatti al Csm si scannano per i vertici delle procure, dove si gestisce il vero potere, quello della sanzione reputazionale inflitta con le notizie sulle indagini. Il politico non si difende mai nel merito. Lamenta la persecuzione giudiziaria (sempre "a orologeria", anche per processi di dieci anni come nel caso di Rixi) e rivendica di non aver fatto niente di illegale, avendo mutuato una cultura da avvocaticchi: una porcheria è tale solo in caso di condanna definitiva. Così chi ritiene che un politico sia un delinquente non cambierà opinione per l'assoluzione.

Non è questione di essere garantisti o giustizialisti. È che le sentenze sui colletti bianchi hanno ormai la stessa credibilità dei magistrati che le fanno e delle loro spartizioni correntizie. Non si può pretendere che il codice penale fornisca un criterio di giudizio univoco sulla lecita rimborsabilità di una birra bevuta al raduno leghista di Pontida. Ma la politica non si pone il problema. Anzi. Considera la giustizia come un autovelox: vanno a velocità etiche pazzesche e se vengono beccati devono solo trovare un avvocato che spieghi al giudice che l'apparecchio era tarato male e che mica dobbiamo sottilizzare per mille euro in più o in meno. E quando vengono per caso condannati passano mesi nei talk show, trattati da eroi, a lamentarsi di essere stati puniti solo loro mentre, notoriamente, così facevan tutti. Come dei Palamara qualsiasi.

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