No, non è un fantasma che si aggira per l’Italia. Sono gli indizi della sindrome populista che finora sostanzialmente, ma non del tutto contenuti, fanno la loro comparsa nelle dichiarazioni e nei comportamenti della presidente del Consiglio Giorgia Meloni.

Le conferenze stampa senza domande e senza contraddittori(o) piacciono a molti capi di governo, ma le querele alle critiche provenienti dai giornali vanno un passo più in là. Intendono anche essere minacciosi avvertimenti a coloro che ritengono giustamente che l’opinione pubblica debba ricevere il massimo di informazione e di controinformazione.

Questo è ancora più vero e più utile nella fase in cui sono molti i soggetti, interni ed esterni, produttori di fake news e impegnati in manipolazioni più o meno sottili che mirano a ridimensionare fortemente la libertà di stampa. Peggio quando al ridimensionamento contribuiscono anche i giornalisti stessi, quelli inadeguati e impreparati, ma anche quelli ambiziosi che corrono in soccorso del regime.

Governo contro magistratura

Il livello sale e la sindrome diventa più visibile quando il conflitto riguarda le istituzioni e contrappone, si potrebbe dire che è quasi un classico, il governo alla magistratura. Scontri di questo tipo si manifestano dappertutto. Le differenze consistono nei toni e nei modi, nella reazione dei governanti. Avevamo da tempo imparato insieme al contadino tedesco cui il re aveva confiscato la terra che già in quei tempi lontani c’era un giudice a Berlino.

Adesso sappiamo anche che esiste una giudice a Catania che pensa che la Costituzione non possa essere ignorata e violata da decreti del governo e che ritiene che persino le norme europee meritino di essere rispettate. La dinamica di una interazione democratica consente ricorsi del Ministro responsabile e contempla anche la possibilità di errori individuati e sanati dando ragione al ricorrente. Quello che la dinamica democratica non contempla, ma quella populista contiene e esprime, è che la sentenza di un magistrato venga accusata di attacco al «governo democraticamente eletto», in sostanza di sovversione della sovranità popolare.

In primo luogo, giova ripeterlo, nessun governo è democraticamente «eletto». Costituzionalmente, è democraticamente insediato quando e fintantoché gode della fiducia, espressa o implicita, del Parlamento. Tutti i governi debbono operare secondo le leggi vigenti, a cominciare dalla Costituzione, le cui disposizioni è responsabilità della magistratura interpretare con motivazioni scritte. Tipicamente, i populisti credono che chi vince le elezioni ha conquistato il potere, tutto.

Il liberalismo, di cui troppi commentatori si riempiono la bocca, si basa anche sulla separazione delle istituzioni e su spazi di autonomia, da proteggere con freni e contrappesi, e valorizzare per ciascuna di loro.

La stabilità

Anche martedì Giorgia Meloni ha voluto ribadire che è necessario rendere il governo italiano più stabile affinché sia più forte. Qualcuno vorrebbe una democrazia «decidente», aggettivo assolutamente improprio che nella teoria democratica non fa praticamente mai capolino.

Meloni ha iniziato la sua battaglia costituzionale introducendo un uomo di paglia: il governo tecnico da aborrire.

Senza dimenticare che alcuni, non pochi, “tecnici” già occupano cariche ministeriali importanti nel suo governo, è lecito ipotizzare che il pericolo della comparsa di un governo tecnico sostenuto dai poteri forti (tutta la batteria populista trova il suo sfogo) venga sollevato proprio per puntellare la sua riforma costituzionale, ancora non precisata, ma con alcuni tratti genuinamente populisti: la donna sola al comando in controllo del Parlamento, del suo funzionamento e del suo scioglimento. Quanti indizi sono sufficienti per fare una prova?

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