L’inflazione è sempre stata vista come uno squilibrio tra domanda e offerta e la politica monetaria come lo strumento che può frenare l’inflazione, riportando la domanda ai livelli dell’offerta. Infatti, se la domanda (di beni, servizi, lavoro, materie prime, ecc.) eccede l’offerta, ovvero se l’offerta ha dei limiti o degli impedimenti, i prezzi tendono a salire e la politica monetaria, riducendo la quantità di moneta in circolazione, riporta la domanda al livello dell’offerta, frenando l’inflazione.

Ma l’inflazione è anche un processo di alterazione nella distribuzione dei redditi e, quindi, quando si decide di fermare l’inflazione, si decide implicitamente di mantenere la distribuzione dei redditi ai livelli raggiunti, che essa sia giusta o meno, poco importa.

In effetti, i prezzi posso salire perché un cartello formato dai produttori blocca o limita l’offerta di materie particolari (l’Opec ad esempio) per ottenere un aumento dei prezzi del loro prodotto, ossia dei redditi da loro percepiti a scapito degli acquirenti.

La questione dei profitti

Lo stesso vale nel rapporto tra salari e profitti: i sindacati dei lavoratori possono chiedere e pretendere aumenti salariali volti ad aumentare o a ripristinare la capacità reale di spesa dei lavoratori, e in questo caso i salari devono aumentare più dei prezzi.

Analogamente, le imprese in posizione di monopolio o di oligopolio possono aumentare i prezzi dei loro prodotti, realizzando uno spostamento del reddito a favore dei profitti e a scapito dei consumatori. Anche nel caso d’inflazione causata da una modifica nella distribuzione dei redditi, si produce uno squilibrio tra domanda e offerta, causato dalla forza di una delle parti rispetto alle altre, ed anche in questo caso l’inflazione può essere fermata attraverso una politica monetaria restrittiva.

Ma, in questo caso essa finisce per congelare la modifica nella distribuzione dei redditi provocata dalla posizione di forza di una delle parti in causa. Ad esempio, se l’inflazione è importata per l’aumento dei prezzi delle materie prime o energia, una politica monetaria subito restrittiva impone una perdita di potere d’acquisto per tutti i redditi del paese importatore.

Se l’inflazione è causata dai sindacati che ottengono, grazie a forti scioperi, un aumento sostanziale dei salari, la politica monetaria restrittiva penalizza i profitti perché le imprese non potranno recuperare con un aumento dei prezzi dei loro prodotti.

Viceversa, se l’inflazione è causata da profitti elevati grazie a posizioni monopolistiche o comunque dominanti dei produttori, una politica monetaria restrittiva riduce o annulla le capacità dei lavoratori di ottenere aumenti dei salari che recuperino il loro potere d’acquisto.

Un po’ di inflazione

A questo punto, è interessante domandarci come si sia evoluta la distribuzione dei redditi nel corso degli ultimi anni. Durante la deflazione passata si erano compressi i redditi dei produttori di materie prime e di energia; i profitti delle imprese erano aumentati più dei salari dei lavoratori e, nell’ambito del lavoro, erano cresciuti i redditi apicali rispetto a quelli della massa dei lavoratori.

Con l’esplosione del Covid e poi la guerra, le materie prime e l’energia hanno recuperato livelli di remunerazione maggiori, ma anche i profitti delle imprese sono cresciuti perché queste ultime sono riuscite a ribaltare l’aumento dei costi di produzione sui prezzi finali. Solo il lavoro continua ad arrancare.

Bloccare oggi l’inflazione con una politica monetaria restrittiva che generi una recessione come intende fare la Bce, significa accettare questa distribuzione dei redditi. Se invece si accettasse un po’ più di inflazione per un certo periodo, si darebbe spazio ai salari per recuperare la perdita di potere d’acquisto e ripristinare una migliore distribuzione dei redditi. D’altra parte, un po’ d’inflazione dopo tanti anni di deflazione non sarebbe un male troppo elevato.

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