La Ue punta alle zero emissioni nel 2050; la Cina nel 2060; Joe Biden si insedia e decide il rientro nell’Accordo di Parigi sul clima e il blocco dell’oleodotto Keystone. Non c’è impresa che non si dichiari pro ambiente, e il mercato è inondato da emissioni di green bonds (si stima 500 miliardi quest’anno), che anche la Commissione utilizzerà per finanziare circa un terzo del Next Generation EU.

La transizione alla green economy viene raccontata come la scalinata verso il Paradiso. Si tacciono costi occulti, incongruenze e false promesse.

Uno studio riportato dalla BBC mostra come la concentrazione di Co2 nell’atmosfera a maggio scorso abbia superato le 400 parti per milione per la prima volta da 4 milioni di anni. Il lockdown ha ridotto le emissioni per 4,5 miliardi di tonnellate, ovvero appena 0,6 parti per milione: una goccia nel mare. E con la ripresa, le emissioni torneranno a crescere, come dimostrano la forte crescita del prezzo del greggio e del gas naturale, tornati ai livelli medi di due anni fa.  

Il prezzo dei certificati per le emissioni (il sistema per tassare l’inquinamento), sono scambiati a 32 euro, contro il 27 medio del 2019: un aumento risibile per sperare di indurre la trasformazione verde dei settori inquinanti e che rende gli obiettivi dei governi poco credibili.

Gas e petrolio rimarranno per tanto tempo ancora le principali fonti energetiche perché non ci sono ancora tecnologie sufficientemente affidabili ed economiche per una massiccia transizione green di industria, trasporti, e abitazioni nei tempi promessi dai governi. Persino il settore elettrico, il più avanzato nella green economy, dovrà mantenere capacità alimentata da combustibili fossili per poter gestire le discontinuità nelle rinnovabili. Non a caso si continua a investire in nuovi grandi progetti come il gasdotto Nord Stream o il gas nel Mediterraneo orientale.

Contraddizioni, costi occulti e danni collaterali abbondano. Sempre secondo la BBC, le politiche green sarebbero vanificate dal rilascio di Co2 provocato da deforestazione e riscaldamento del permafrost (meccanismi naturali di cattura delle emissioni) e dai sempre più frequenti incendi.

La convenienza delle batterie per i veicoli elettrici non tiene conto dei costi economici e ambientali sia del loro riciclo, sia della produzione (si stima che in 10 anni la domanda di litio aumenterà di 9 volte, di 5 quella di grafite, e di 3 quella dei minerali rari, cobalto e nickel).

Né esiste una tecnologia consolidata: anche se non fattura neanche un dollaro, QuantumScape vale 15 miliardi in Borsa, solo perché si ritiene possa produrre una batteria “a secco” che risolverebbe i problemi e i limiti di quelle attuali “liquide” al litio.

Problemi analoghi per il costo del riciclo dei pannelli solari, in maggioranza fabbricati in Cina, che investe ancora in nuove centrali a carbone; o per la manutenzione dei parchi eolici offshore, soggetti a una eccessiva corrosione da salino.

Ricordate il nucleare?

Non c’è niente di nuovo: per tanto tempo si è considerata l’elettricità dal nucleare la più a buon mercato solo perché non si teneva conto dei costi di spegnimento e chiusura delle centrali e dei rischi di un incidente. Costi che spiegano i tempi lunghi per uscire dal nucleare: la Francia, da cui importiamo elettricità, impiegherà 15 anni a scendere dal 70 per cento attuale di capacità nel nucleare al 50 per cento; e anche Enel, leader nelle rinnovabili, nel suo piano triennale non riduce la capacità nel nucleare (11 per cento della generazione del gruppo).

Di idrogeno si parla da anni, ma costi e tecnologie disponibili lo renderanno anti economico ancora per molto. Un consorzio di società svedesi, col sostegno statale, ha annunciato un progetto pilota per essere primi al mondo nella produzione di acciaio verde usando idrogeno e rinnovabili: le operazioni saranno però interamente fossil free solo nel 2035 e con un investimento di 40 miliardi in 20 anni: al confronto, il miliardo dei fondi europei che il governo vuole assegnare all’Ilva è un mero gettone di presenza.

La norvegese Nel Asa, specializzata in produzione, stoccaggio e distribuzione di idrogeno verde, fatturava 10 milioni nel 2015 e ne perdeva 2,4; quest’anno ne fattura 105, ma continua a perderne 21. L’idrogeno verde rimane così una bella speranza. C’è l’idrogeno blu col gas, che richiede però la “cattura” delle emissioni in caverne sotterranee: meno costoso del verde, ma non c’è consenso sulla tecnologia da impiegare e sul grado di affidabilità. C’è infine il Giappone che punta sull’importazione dell’idrogeno liquefatto: prodotto però in Australia col carbone.

Il trauma della transizione

La più grande verità nascosta dell’economia verde riguarda i costi della transizione. A differenza della rivoluzione digitale, dove il capitale richiesto è prevalentemente intangibile, quella verde richiede ingenti investimenti in capitale fisico a cui si aggiunge il costo della svalutazione accelerata delle attività esistenti.

Per esempio, la sola Enel ha dichiarato che investirà 63 miliardi nel prossimo decennio; mentre ne sono bastati appena 8 (e zero debito) per creare e far crescere Google fino alla quotazione nel 2004.

E dato che le società per azioni devono necessariamente remunerare adeguatamente il costo del capitale, saranno i ricavi dalle bollette o i prezzi dei beni venduti a pagare gli investimenti green. Sempre Enel dichiara che fra 10 anni il suo costo dell’elettricità, in termini reali, rimarrà costante.

Significa che i consumatori non beneficeranno minimamente degli aumenti di produttività che ci si aspetta da un decennio di massicci investimenti. Saranno dunque loro a pagare la transizione green (e i dividendi agli azionisti). Lo stesso accadrebbe se, per esempio, l’Europa imponesse dazi all’importazione di acciaio per aiutare la decarbonizzazione di quello che produce in casa.

Niente pasti gratis

Sbagliato pensare che il problema non esiste perché tanto c’è lo Stato che paga la transizione all’economia green. Non ci sono pasti gratis. Lo stato ha un ruolo fondamentale nell’indirizzare, promuovere e facilitare questa transizione. Ma tutti gli investimenti pubblici nell’economia green devono aumentare stabilmente la produttività e la crescita del paese, per poter generare il gettito fiscale necessario a rendere sostenibile il debito fatto per finanziarli.

Da questo punto di vista preoccupa che il governo voglia assegnare le risorse per l’ambiente del Next Generation Eu privilegiando le imprese di cui è azionista (come Eni, Enel, Terna, Ilva o Snam), anche per progetti che potrebbero essere benissimo finanziati sul mercato: oltre a essere un indebito aiuto coi soldi del contribuente, spiazzerebbe altre iniziative meritorie. E fa sorgere il sospetto che il governo utilizzi i fondi europei per migliorare il pedigree ambientale delle società di cui è azionista, e la reputazione di manager di sua nomina, che magari hanno anche contribuito a decidere su come allocare quei fondi.

© Riproduzione riservata