I risultati delle elezioni amministrative non si traducono automaticamente in voti alle elezioni politiche. Il risveglio dalle illusioni può essere amaro per chi ha vinto a mani basse nelle grandi città. Soprattutto quando vi è stata una astensione così alta che certamente non si ripresenterà per il rinnovo del parlamento.

Detto questo, domenica si è avuta la conferma di un cambio di atmosfera. Il populismo sovranista nei suoi diversi colori, verde e nero, ha perso spinta. Anche chi ha avuto un atteggiamento indulgente di fronte alla leader di Fratelli d’Italia ha dovuto ammettere che quello sguardo ceruleo e quella bionda chioma nascondevano del nero fitto: vecchi arnesi del neofascismo e politici senza scrupoli pronti a racimolare soldi illegalmente per una manciata di preferenze. E a Giorgia Meloni non è rimasto che gridare al complotto. Una ulteriore prova di inaffidabilità democratica.

Al suo fianco Matteo Salvini continua la discesa agli inferi. Dalla mitica estate del Papeete ha inanellato una serie impressionante di sconfitte. Si è salvato dall’isolamento solo convincendosi all’ultimo minuto a entrare nel governo perché, come disse testualmente, in fondo «ci sono soldi da spendere»: una convinta adesione ideale al progetto europeo… Ma ha rinverdito il passo bossiano del partito di lotta e di governo.

FdI e Lega, vincitori predestinati fino all’altro giorno, sono caduti per due motivi. Il primo rimanda al profilo e all’azione del governo e in particolare del presidente del Consiglio Mario Draghi: un semestre abbondante di attività fattiva, senza polemiche, a voce bassa – e tagliente, all’occasione – parlando di obiettivi e mantenendo fissa la barra sull’orizzonte strategico di una maggiore cooperazione con le istituzioni europee. Questo approccio ha smontato le basi su cui FdI e Lega hanno costruito il loro consenso. E ha reso fastidioso il loro vociare contro il green pass in nome della “libertà”. Il rifiuto dei ministri leghisti di votare la delega fiscale in Consiglio dei ministri rivela quanto l’azione del governo stia diventando un problema per la Lega.

Il secondo ostacolo, imprevisto, è rappresentato dal rafforzamento della leadership di Enrico Letta. In questi mesi il segretario ha convinto anche i riottosi a sostenere lealmente il governo. Non ha rinunciato a presentare una propria agenda, ma senza alzare i toni.

Il Pd si è offerto, ancora una volta, come un partito responsabile di governo. Una formazione sulla quale fare affidamento, anche in virtù di una ampia e sperimentata classe dirigente, al centro e in periferia. Una risorsa che manca terribilmente alla destra.

Alla fine, il bisogno di rassicurazione dell’opinione pubblica, interpretato nella fase più acuta dalla figura pacata di Giuseppe Conte, e nella fase di ricostruzione dall’allure tecnocratica di Mario Draghi, ha oggi premiato chi è in linea con questo sentire.

Lo stesso Movimento 5 stelle ha capito che non è più tempo di urla. Solo che, preda del contrappasso, rischia di rimanere del tutto afono. Questo elettorato – un terzo dei votanti alle ultime elezioni politiche – è in libera uscita. Chi lo conquista ha in mano la prossima legislatura.

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