Presto il governo Draghi sarà chiamato a una prova decisiva per la sua maggioranza, e divisiva. Si tratta della riforma fiscale. Una buona riforma dovrebbe avere l’ambizione di risolvere le quattro tare maggiori del nostro sistema. Primo, un’imposizione che pesa molto sui redditi medi, mentre grazie ai numerosi bonus perde progressività su quelli alti.

Secondo, l’andamento erratico delle aliquote marginali effettive (e quindi degli incentivi), per via di una serie di detrazioni introdotte soprattutto dai governi di centro-sinistra che sono in proporzione al reddito anziché costanti.

Terzo, il trattamento di favore che ricevono gli affitti, tassati in modo piatto a prescindere dal numero di immobili; anche la tassazione dell’eredità è in Italia fra le più basse del mondo avanzato, un dato questo che contraddice i principi di fondo della meritocrazia spesso invocata (e si deve soprattutto ai governi Berlusconi).

Quarto, il regime forfettario introdotto nel 2019 per le partite Iva fino a 65mila euro, dal governo giallo-verde, creare iniquità e favorisce evasione e nanismo.

Tutte le forze politiche hanno concorso a queste storture, per motivi elettoralistici, con il risultato di rendere il sistema fiscale italiano iniquo, inefficiente e di ostacolo alla crescita.

Queste storture si intrecciano e collegano fra loro ed è per questo che, come ha dichiarato il ministro dell’Economia Daniele Franco, una buona riforma fiscale dovrebbe avere l’ambizione di riorganizzare tutto il sistema, non limitarsi ad un solo aspetto.

Con il ministro Gualtieri, il Pd stava lavorando a una riforma in senso progressivo, che riduce il carico per i ceti medi, semplifica il sistema sfoltendo molte agevolazioni e introduce il modello tedesco di tassazione continua. Non è a costo zero, anzi, secondo le stime vale circa 15 miliardi l’anno: di questi 2 miliardi sono già stati stanziati in via strutturale, altri 2-3 verrebbero dal recupero dell’evasione fiscale; i restanti 10, in parti più o meno uguali, da un tetto posto alle detrazioni e ai bonus e dall’abolizione della cedolare secca al 21% per gli immobili (con l’eccezione della prima casa affittata).

Gli ultimi due interventi si traducono in maggiori oneri per i ceti a maggior reddito (l’ultimo scoraggia anche l’utilizzo improduttivo della ricchezza) e compensano il vantaggio che ne avrebbero invece i redditi medi e medio-bassi.

Da premier in pectore, Draghi aveva manifestato apertura. Poi però la riforma si è incardinata in parlamento, dove nella nuova maggioranza vi sono posizioni molto diverse.

La cosa più preoccupante è però che, nel frattempo, si è tornati a parlare di condono. La Lega  chiede una sanatoria per tutte le cartelle fino a 10mila euro, per il periodo 2000-2015. C’è il rischio che quella soglia si riferisca a singole posizioni (con possibilità di sanare quindi cifre totali ben più grandi, evasori seriali).

Al contrario, bisognerebbe sanare solo le cartelle non più esigibili (e senza soglia), come ci chiedono Ocse e Fmi: a tal fine, bisogna cambiare le norme sull’inesigibilità e mettere al lavoro gli uffici sulle cartelle arretrate.

Un nuovo condono non sarebbe un buon viatico nemmeno per la riforma fiscale. Un’operazione ben fatta, mirata, sulle cartelle inesigibili può invece aiutare a ristabilire un principio di equità e correttezza fra l’amministrazione e i cittadini (tutti i cittadini: non è possibile che gli unici a pagare sempre le tasse siano i lavoratori con ritenuta alla fonte).

La differenza fra un paese avanzato e giusto, rispetto a uno iniquo e in declino, in fondo è qui.

© Riproduzione riservata