I cosiddetti governi di unità nazionale nascono per fronteggiare emergenze e crisi devastanti. Durante la Seconda guerra mondiale, per la prima e unica volta laburisti e conservatori si accordarono per dare vita ad un esecutivo sostenuto da entrambi: ma piovevano le bombe, e Hitler minacciava di sbarcare sulle scogliere di Dover. Dopo la Seconda guerra mondiale, nello spirito concorde della ricostruzione, le forze politiche antifasciste si unirono per un anno e mezzo fino alla fuoriuscita dei comunisti dopo che erano emersi i progetti egemonici di Stalin sull’Europa. Negli anni Sessanta, in Germania, socialdemocratici e cristiano-democratici si accordarono per formare una “Grande Coalizione” al fine di fronteggiare la prima – leggera per la verità – crisi economica e il conseguente risorgere dell’estrema destra. Dopo tre anni, quell’esperienza si chiuse, salvo riproporsi negli ultimi anni in parte per gli stessi problemi.

Oggi è diverso

Anche in Austria i due storici contendenti, socialdemocratici e popolari, sono andati al governo assieme più volte da fine anni Ottanta in poi, per fermare l’ascesa della destra nazionalista, senza peraltro riuscirci, anzi. Anche da noi abbiamo già avuto esempi analoghi, sia nel passato con i governi di unità nazionale di fine anni Settanta sotto i colpi del terrorismo e dello stragismo, che in tempi più recenti, con il governo Monti (novembre 2011-febbraio 2013) e il governo Letta (marzo-settembre 2013). La storia quindi insegna che partiti che si collocano agli antipodi dello scacchiere politico trovano una ragione di convergenza solo in momenti molto gravi.

La fase che viviamo è piena di incertezze tanto sul piano sanitario, anche se si intravede una luce con i piani vaccinali così bene avviati, quanto su quello economico-sociale con la prospettiva di una valanga di licenziamenti e di fallimenti. Tuttavia oggi non c’è alcun rischio di crisi finanziaria, né la nostra reputazione è sotto le scarpe come invece nel 2011, con il governo Berlusconi irriso da tutta Europa. L’incarico a Mario Draghi avviene in un clima ben diverso. Ci sono 209 miliardi in arrivo e, come ha detto Salvini, chiarendo tutta la profondità del suo inedito afflato europeista, è meglio partecipare alla spartizione che starsene fuori. A questo si aggiunga che in tal modo il leader leghista viene ammesso nei salotti buoni grazie alla – involontaria ma inevitabile – mallevaria di Mario Draghi. Però qualche problema di convivenza dovrebbe sorgere se, ad esempio, un dirigente leghista, assessore e vicepresidente del consiglio regionale veneto, dichiara che il dittatore cileno Pinochet è «un salvatore» (sic), e «dopo aver salvato il Cile dai comunisti avrebbe salvato anche l’Italia». Quando si formano governi di coalizione “sovrabbondanti”, ben al di là del numero minimo necessario, non solo si perde in coesione e coerenza programmatica, ma si possono imbarcare compagnie impresentabili. Allora ritorna il punto, messo troppo presto sotto il tappeto, della convivenza tra partiti così incompatibili e alternativi come la Lega e il Pd.

Incompatibilità

Tra queste due formazioni politiche non esiste alcun terreno comune. Le idee rispettive sui diritti civili, sull’economia , sul fisco, sull’immigrazione, sul welfare, sulla collocazione internazionale (ci siamo dimenticati le visite moscovite di Salvini motivate anch’esse dall’odore dei soldi…) divergono radicalmente. È difficile per un governo rimanere in equilibrio tra chi vuole una flat tax e chi punta alla riduzione delle diseguaglianze attraverso un fisco più equo e progressivo con lo spostamento del suo carico dal lavoro alle rendite, tra chi intende tutelare i lavoratori e chi invoca libertà di licenziamento a 360 gradi, tra chi vuole lasciar marcire i migranti in mare e chi vuole accoglienza e integrazione, tra chi predilige modelli privatistici di cura (con il bel risultato della regione Lombardia) e chi punta a rafforzare il sistema sanitario nazionale, tra chi vuole tutele per coloro che hanno perso il lavoro e chi si affida ai miracoli del mercato.

Ovviamente il presidente Draghi offrirà la sua ricetta ma è implausibile che rimanga in surplace su tutte queste questioni. La sua sensibilità verso la grande questione della giustizia sociale, acuita drammaticamente dalla crisi pandemica, e la consapevolezza di quanto l’incremento delle diseguaglianze indebolisca le democrazie, induce a pensare che orienterà le sue scelte verso quel riformismo progressista che dal New Deal al welfare state postbellico ha salvato l’occidente. E se i populisti sovranisti verranno a Canossa brandendo il Manifesto di Ventotene, allora si potrà sacrificare il vitello grasso.

© Riproduzione riservata