Dopo avere assistito, nella legislatura in corso, a tre maggioranze di governo a geometria politica variabilissima, tutte in contrasto con le promesse elettorali dei singoli partiti, e al secondo caso di rielezione del presidente della Repubblica in carica come soluzione di ultima istanza, ci prepariamo alla quarta modifica del sistema elettorale in trent’anni, alla terza in poco più di quindici, senza contare i vari tentativi falliti.

Si può stare certi che questo lavorio non porterà alla adozione del sistema elettorale perfetto. Anche perché un tale oggetto non esiste, in quanto i sistemi elettorali devono inevitabilmente scegliere tra obiettivi in contrasto, che potremmo ritenere (e che di fatto spesso riteniamo) tutti in principio meritevoli di essere perseguiti. Al punto che anche persone qualificate, a conoscenza degli elementi base della materia, rischiano di non considerare questi inevitabili trade off e prendere per buone posizioni internamente contraddittorie.

L’equilibrio impossibile

Per renderlo evidente, e per metterli sull’avviso, da qualche anno faccio un esercizio con gli studenti che frequentano il mio corso di scienza politica. Propongo loro di partecipare a un sondaggio sugli obiettivi che un buon sistema elettorale dovrebbe raggiungere.

Di seguito le domande e la percentuale di “sì” registrata per ciascuna di esse a ottobre 2021, in linea con quanto ho sempre potuto osservare in esercizi simili. Sono abbastanza certo, che i risultati nella sostanza non cambierebbero con un campione rappresentativo della popolazione. Gli appassionati del genere possono del resto replicare l’esercizio per proprio conto.

1) Il sistema elettorale deve garantire che ogni cittadino possa essere rappresentato dal partito in cui ha più fiducia (71 per cento di sì); 2) Gli elettori devono poter scegliere, tra i candidati al parlamento del proprio partito, la persona da cui vogliono essere rappresentati (85 per cento); 3) È giusto che siano i leader dei partiti presenti in parlamento a mettersi d’accordo per decidere da chi deve essere formato il governo (66 per cento); 4) Ogni cittadino ha il diritto di attendersi che tutti i parlamentari del partito per cui ha votato sostengano coerentemente le idee e le proposte portate avanti da quel partito (64 per cento); 5) Gli elettori devono poter decidere quale leader e quale forza politica deve governare (81 per cento); 6) Il sistema elettorale deve evitare che ci sia un numero esorbitante di piccoli partiti (77 per cento); 7) Il sistema elettorale deve essere fatto in modo che subito dopo aver scrutinato i voti si capisca chi ha vinto e deve assumersi la responsabilità di governare, chi ha perso e deve quindi stare all’opposizione (78 per cento).

Esigenze inconciliabili

Si dà il caso che per promuovere gli obiettivi 5 e 7 serva un sistema elettorale che fabbrica maggioranze, che cioè consegni tendenzialmente la maggioranza assoluta dei seggi alla forza politica (partito o coalizione) arrivata prima, anche se quella forza politica ha ottenuto una maggioranza solo relativa dei voti.

Ma ogni sistema elettorale del genere riduce le possibilità di raggiungere il primo obiettivo: anche chi ha più fiducia in un partito che raccoglie il due percento dei voti deve essere rappresentato.

D’altro canto, questa ultima aspettativa è in contrasto con la numero 6, pure sostenuta dalla maggioranza dei rispondenti, secondo cui bisogna evitare che ci siano troppi partiti. Figuriamoci se non siamo d’accordo, in linea di principio, che (n. 2) gli elettori devono poter scegliere, tra i candidati al parlamento del proprio partito, la persona da cui vogliono essere rappresentati (almeno fino a quando non siamo messi di fronte alle degenerazioni a cui può condurre la lotta per le preferenze).

Tuttavia, se la competizione elettorale diventa acuta anche dentro i partiti e le chance personali di essere eletti dipendono dalla capacità individuale di raccogliere voti di preferenza (in competizione con altri candidati dello stesso partito) o di ottenere a quel fine il sostegno organizzato di una corrente (in aperto contrasto con le altre), è sicuramente più difficile attendersi che (n. 4) i relativi gruppi parlamentari risultino monolitici.

I sistemi misti

La necessità di contemperare queste diverse esigenze ha fatto la fortuna - soprattutto a partire dall’inizio degli anni Novanta del secolo scorso, non solo in Italia - dei sistemi elettorali misti. Sistemi che cioè contemplano l’assegnazione dei seggi con due diverse modalità, attribuendone una quota con formula proporzionale (così da consentire a quasi tutti di avere rappresentanza) e un’altra con formula maggioritaria (così da favorire le aggregazioni e la formazione di governi politicamente omogenei, in qualche modo scelti dai cittadini).

Tecnicamente, ricadono in questa categoria, anche se con meccanismi e misure diverse, sia la legge Mattarella (1993), sia la Calderoli (2005), sia la legge Rosato (2017), sia le leggi adottate tra il 1993 e il 1995 per Comuni e Regioni e mai finora messe seriamente in discussione.

Passare a un sistema puramente proporzionale non può essere considerato un tabu. Difficile però immaginare che in questo modo i problemi e le anomalie a cui abbiamo assistito nella legislatura in corso verrebbero attenuati.

Perché mai (a parità di altre condizioni) la formazione delle maggioranze di governo dovrebbe risultare più semplice sotto una regola elettorale che induce ciascun partito ad accentuare le sue specifiche posizioni e marcare la sua indipendenza da qualsiasi alleanza preventiva? Perché dovrebbe essere più facile per i leader di partito convergere sul nome di un/a nuovo/a Presidente della Repubblica con spirito nazionale unitario?

Forse è possibile, con un sistema molto selettivo, che pur adottando una formula proporzionale, presenti soglie formalizzate o implicite talmente alte da ridurre drasticamente il numero dei partiti presenti in parlamento.

Non sembra però si stia pensando a qualcosa del genere. Vedremo. Rimane il fatto (quasi una legge ferrea) che chi decide in parlamento sul sistema elettorale - salvo casi eccezionali, in cui è sottoposto a un vincolo esterno, come fu ad esempio il referendum Segni che Sergio Mattarella tradusse in legge - non lo fa per risolvere problemi di sistema ma per massimizzare il suo vantaggio politico di breve termine.

Per cui, facilitato dalle contraddizioni che ciascuno di noi coltiva tra le diverse finalità dei sistemi elettorali, può agevolmente fare un giorno l’elogio del doppio turno francese quello successivo del proporzionale alla tedesca, a seconda di come girano i sondaggi.

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