Ankara e Beirut: il senso del papa per la politica

Inizia oggi il viaggio di papa Leone in Turchia e in Libano, il primo internazionale del pontificato, ereditato dal predecessore ma che Prevost ha saputo con discrezione trasformare. Il motivo principale di questo itinerario – che prevede all’inizio gli incontri, dai risvolti politici evidenti, con Erdoğan, attore di primo piano nella regione e nel contesto internazionale, e poi con i diplomatici accreditati ad Ankara – è un avvenimento religioso di indubbia importanza. Si tratta infatti della ricorrenza del diciassettesimo centenario del primo concilio di Nicea (oggi Iznik, a un centinaio di chilometri di Istanbul), che nel 325 apre la serie di quelli ecumenici, cioè universali. Di questi i primi sette, fino al secondo di Nicea nel 787, sono riconosciuti dalla maggioranza dei cristiani, mentre per la chiesa cattolica arrivano – con il Vaticano II, concluso nel 1965 – a ventuno. Politiche e religiose sono le implicazioni anche della visita in Libano, confinante con la Siria e con Israele. Voluta personalmente da Leone XIV, questa seconda parte del viaggio cade a cinquant’anni dall’inizio, nel 1975, della guerra civile – di fatto alimentata e combattuta dai potenti vicini – che ha devastato e messo a rischio il piccolo paese arabo. Il Libano si regge infatti sulla convivenza e su un fragile equilibrio tra etnie e religioni, dove i cristiani, divisi in confessioni e riti diversi, rappresentano la maggioranza. Cresce la paura della guerra nel Libano che attende la visita del papa Carichi di significato saranno dunque gli incontri, le celebrazioni e soprattutto, poco prima di lasciare Beirut, la preghiera silenziosa del papa sul luogo della tremenda esplosione che cinque anni fa, nel 2020, ha distrutto parte del porto e del centro della capitale libanese. Non va dimenticato che il nome del paese – l’antica Fenicia, compresa a pieno titolo nella “terra santa” dei cristiani – si ritrova una settantina di volte nella Bibbia ebraica e che l’aspetto dell’amato nel Cantico dei cantici è «quello del Libano, magnifico come i cedri». Politica e religione si scontrano anche nella commemorazione del concilio di Nicea, che pure di fatto è riconosciuto da tutti i cristiani, a causa delle divisioni del mondo ortodosso. Sempre più aspra, in anni recenti per la divisione tra i fedeli ucraini, è la contrapposizione tra il patriarcato di Costantinopoli – che risale al IV secolo e conserva un primato di onore, con fedeli soprattutto al di fuori della Turchia – e quello di Mosca. La comunione si è così interrotta tra i patriarchi Bartolomeo di Costantinopoli e Cirillo di Mosca. Quest’ultimo da anni ispira Putin, nel 2016 ha provocato il fallimento del concilio panortodosso di Creta e dal 2022 sostiene la guerra di aggressione contro l’Ucraina. Alle celebrazioni indette in Turchia dal primo dei patriarchi ortodossi non vi saranno dunque, a meno di sorprese dell’ultima ora, rappresentanti russi. L’ecumenico viaggio di Leone tra Turchia e Libano e i dilemmi del mondo ortodosso Il papa di Roma ha fatto il possibile per non approfondire le divisioni e distinguere la commemorazione del concilio, il 28 novembre, dalla festa di sant’Andrea, patrono della chiesa di Costantinopoli. Questa infatti ricorre due giorni dopo, quando Leone parlerà durante la “divina liturgia” nella chiesa patriarcale, poche ore prima di lasciare Istanbul alla volta di Beirut. Appare dunque chiaro che l’intento e il dovere di Roma – e oggi di Prevost, ultimo successore di Pietro – sono cercare e promuovere l’unità tra i cristiani. Leone XIV l’ha scritto esplicitamente nella lettera apostolica In unitate fidei (“nell’unità della fede”) il 23 novembre scorso, ricordando il concilio Vaticano, e l’Ut unum sint (“perché siano uno”) di Giovanni Paolo II, pubblicata nel 1995. L’enciclica di Wojtyła è stata al centro nel 2024 di un lungo documento vaticano che ha raccolto le reazioni – piuttosto positive – dei cristiani non cattolici, soprattutto anglicani e protestanti. L’Ut unum sint è «la prima enciclica ecumenica» afferma oggi il pontefice, celebrandone l’anniversario e definendola «un manifesto» che ha aggiornato le «basi ecumeniche poste» diciassette secoli fa da Nicea. Senza nascondere le gravi difficoltà attuali, il papa americano ha così riportato in primo piano un documento nel quale Wojtyła richiamava l’urgenza di una riforma dello stesso papato. Per trovare, «evidentemente insieme» a tutti i cristiani, nuove forme – scriveva Giovanni Paolo II – di «un servizio di amore riconosciuto dagli uni e dagli altri».