La morte non è mai stata così vicina ai vecchi. La morte è sempre vicino ai vecchi, naturalmente; ma c’è un momento, che varia per ciascuno, in cui smette di essere ipotetica e comincia a essere numerabile – passeranno magari ancora molti anni, dieci o venti, ma comunque non è più una possibilità astratta, è un fatto certo da inserire nei propri programmi, un conto alla rovescia.

E’ come un gruzzoletto di monete da cui, implacabilmente, ogni anno ne viene tolta una; beato chi ha la cultura e il sentimento sufficienti per non spaventarsi e non prendersela, anzi riesce a mettere a frutto questa certezza.

Come fanno i cantanti d’opera, che sanno già di essere impegnati al Metropolitan o alla Scala nel 2028: se tutto va bene.

Oppure ci sono i nipoti da veder crescere, per cui sentirsi utili; o la passione civile, per cui vale la pena di battersi fino all’ultimo. Insomma, l’avvicinarsi della fine è la misura di quanto la vita uno ha saputo viverla.

Ma mai, a mia memoria, c’è stato un periodo in cui la vicinanza della morte ti venisse ricordata tutti i giorni dai mezzi di comunicazione. (C’era un frate che lo ricordava ai confratelli trappisti, “ricordati che devi morire”, ma il contesto era alquanto specializzato).

Ci sono sempre state le malattie, ma erano (e sono) un fardello individuale; c’è il tumore, c’è l’infarto già affrontato due volte, c’è la sclerosi multipla che ti toglie piano piano dei pezzi di vita, e allora sì che fai calcoli. Ora no, ora siamo una categoria, noi fragili. E non è nemmeno una minaccia collettiva che dipenda dal tuo stile di vita, il fumare troppo o il fare troppo sbadatamente all’amore; è una minaccia collettiva che non dipende direttamente da te, è come l’inquinamento. O è qualcosa a cui non puoi più rimediare: se sei obeso, o ti trovi in quello stato che ora in tivù chiamano “polimorbidità”, non puoi tornare indietro.

Soprattutto, la tua generica fragilità sta danneggiando la società intera: se i vecchi sparissero di colpo, questa pandemia verrebbe degradata a virus fastidioso ma tollerabile.

Quindi ti senti in colpa, lo sai che è razionalmente e culturalmente assurdo ma ti senti un intralcio; e magari reagisci esagerando l’importanza dei vecchi, la loro esperienza e la loro indispensabilità.

Quella occidentale, e quella italiana in particolare, è diventata una società gerontocratica: i vecchi stanno ai posti di comando, i vecchi giudicano l’arte dei giovani, i nonni mantengono con la loro pensione i nipoti ma intanto ingombrano e appesantiscono le cifre del welfare.

I vecchi, ti dicono ogni giorno i virologi, ora devono stare in casa; e tu stesso conosci ormai dei coetanei che giravano sempre con la mascherina eppure sono stati intubati e sono morti.

Dunque in casa: i privilegiati da soli in una casa propria, intimoriti ma indipendenti, collegati con zoom o meet o skype; ora la solitudine è un privilegio.

Gli altri, quelli che vivono in famiglia, cercano di stare nella propria camera per non mettere in imbarazzo i giovani di casa, che comunque devono uscire per lavorare e per fare ciò che i giovani non possono evitare di fare, cioè vivere.

Il coprifuoco serale a noi ci sposta poco, per i giovani è una mutilazione. E poi ci sono i meno fortunati, quelli che non sono indipendenti e che non vivono (più) in famiglia; che stanno già nelle “strutture” per anziani, che vengono visitati a scadenze più o meno frequenti da congiunti affezionati o irritabili.Non producono, interagiscono poco, aspettano e basta.

Se il nostro è, come è, un paese invecchiato, allora è un paese che sente la morte alitargli sopra – e che deve reagire con tutta la vitalità di cui è capace, ma senza rimuovere la propria realtà demografica. E’ inutile fare finta (come scioccamente si dice dell’amore) che l’età non conta.

          

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