L’unica certezza: è che l’incertezza regna sovrana. L’incertezza ha un costo finanziario, reso palese dal crollo dei mercati, e un costo reale perchè scoraggia gli investimenti e consumi.

L’incertezza è anche prova di una scarsa comprensione delle dinamiche economiche in atto, e quindi aumenta il rischio che si adottino politiche economiche dannose.

L’opinione prevalente è che alla base dell’incertezza economica ci siano ragioni sostanzialmente diverse negli Stati Uniti e in Europa: vero, ma solo in parte.

L’incertezza finanziaria e politica

Negli Usa, un eccesso di domanda ha innescato l’inflazione, aggravata dalla spinta dei salari in una situazione di piena occupazione.

La Fed dichiara di voler riportare la crescita dei prezzi in linea con l’obiettivo del 2 per cento, aumentando i tassi fino ad avere chiari segnali di un rallentamento dell’inflazione.

Ma gli effetti delle politiche economiche sull’inflazione si manifestano con un marcato ritardo: i prezzi scendono molto dopo che domanda e occupazione sono scese: così si rischia che i tassi vengano aumentati troppo, e troppo a lungo, provocando una recessione. 

Un rischio probabile per il mercato azionario, crollato oltre il 20 per cento che tipicamente segnala una fase “bear”. L’incertezza negli Usa ha dunque caratteristiche finanziarie.

In Europa, invece, la natura dell’incertezza è prevalentemente reale e politica.

Alla base dell’inflazione c’è il caro energia e il taglio delle forniture dalla Russia: l’inflazione importata comprime il potere di acquisto di salari e pensioni, creando un diffuso malessere sociale intercettato da movimenti e forze politiche che cavalcano la protesta, tipicamente con forti tratti nazionalistici, indebolendo l’Unione.

A differenza degli Stati Uniti, quindi, le soluzioni devono essere di natura politica, legate alla strategia da seguire nel sostegno a Kiev e nei rapporti con la Russia, e ai provvedimenti di finanza pubblica per attenuare l’impatto del caro energia.

Usa e Ue non così diversi

A bene vedere, però, questa dicotomia tra Europa e Usa ha dei limiti. Anche negli Usa l’inflazione sta avendo una dimensione politica, perché il prezzo della benzina (aumentato del 60 per cento in un anno) ha una grande rilevanza per il cittadino americano; il risparmio previdenziale è collegato all’andamento del mercato azionario; e l’aumento dei tassi ha reso proibitivo il costo dei mutui (quasi raddoppiato in un anno) facendo presagire una crisi del mattone, parte preponderante della ricchezza americana.

Senza contare che i salari salgono, ma il loro potere di acquisto viene falcidiato dalla crescita dei prezzi.

Le decisioni della Fed nei prossimi mesi avranno dunque implicazioni politiche, visto che nelle elezioni di mid-term i democratici rischiano di perdere il controllo delle camere e Biden, già a corto di popolarità, potrebbe perdere ogni chance di rielezione.

La proposta di eliminare le tasse sulla benzina per tre mesi, la retorica contro gli extra-profitti delle società energetiche, dopo averle incentivate ad aumentare la produzione anche per far fronte all’impegno di sostituire il gas russo con l’Lng americano, il relativo scontro con l’ala ambientalista del partito, sono segni evidenti delle tensioni politiche.

Senza contare che una recessione nel 2023 aumenterebbe le chance di una rielezione di Trump nel 2024.

Arriva la recessione?

La determinazione della Fed nella lotta all’inflazione, anche a costo di una recessione, è ancora da verificare. Non è impensabile che la Fed si fermi ben prima, accettando un’inflazione più alta dell’obiettivo, e più a lungo; contando anche che il caro energia, il più politicamente sensibile, è destinato a rientrare nel tempo, almeno stando al mercato dei future.

Ma allora, perché i mercati danno quasi per scontata una recessione? Si potrebbe ricordare la battuta di Paul Samuelson, uno dei grandi economisti del Novecento, che «Wall Street ha previsto 9 delle ultime 5 recessioni». L’evidenza empirica ha dimostrato che non era una battuta.

La caduta di Wall Street, per ora, è interamente dovuta a una riduzione dei multipli ai quali sono valutati gli utili, non alla riduzione degli utili che, al contrario, sono stimati in crescita del 10 per cento quest’anno e del 9 nel 2023, a fronte di ricavi in crescita dell’11 e 4,8 rispettivamente.

Non certo è uno scenario da recessione.

Gli analisti, di fatto, seguono le indicazioni delle imprese: si deduce che per loro la recessione è un rischio concreto ma, a differenza del mercato, restano in attesa di capire se la Fed sia davvero disposta al “whatever it takes” per abbattere l’inflazione.

Il problema russo

Per l’Europa, il problema è che la Russia è un monopolista che vende un bene di cui non si può fare a meno nell’immediato, a una pletora di compratori europei in concorrenza.

Da monopolista  ha quindi interesse a ridurre l’offerta, facendo aumentare più che proporzionalmente il prezzo, per massimizzare i profitti.

Le esperienze del passato ci insegnano che le iniziative di finanza pubblica tese ad attutire l’impatto del caro energia - riduzione delle imposte, bonus e sgravi fiscali, tasse sugli extra profitti, prezzi amministrati - sono inefficaci e sconquassano i conti pubblici. Inoltre, la colpa dell’esplosione del prezzo del gas non è colpa della “speculazione” finanziaria e dei derivati: i mercati a termine sono essenziali per permettere a imprese e intermediari nel mercato del gas di bloccare i costi delle forniture, stabilizzare i ricavi o limitare le perdite; e l’impennata dei prezzi a termine ha solo quantificato il rischio, puntualmente verificatosi, che la Russia tagliasse le forniture.

L’unica soluzione al problema è che i compratori europei agiscano come un cartello: un compratore unico acquisirebbe potere contrattuale nei confronti della Russia visto che il gas, per molti anni ancora, può venderlo solo all’Europa.

Ma questo richiederebbe anni di negoziazioni, destinate probabilmente a fallire.

La proposta di Draghi del prezzo unico del gas, imposto per legge  a tutte le transazioni europee (come spiegato da Stefano Feltri su queste colonne) di fatto replica esattamente il funzionamento di questo cartello.

La soluzione politica al problema economico dunque c’è: più che l’opposizione delle lobby, bisogna superare l’insipienza dei governi europei a trovare soluzioni concordate.

Incertezze sulla Bce

In Europa le ripercussioni finanziarie e rischio di recessione sono passate in secondo piano. Anche se nessuno sa in che cosa consista lo scudo anti “frammentazione” e quando sarà attivato, non credo che la Bce corra il rischio che un aumento dei tassi inneschi una crisi del debito pubblico italiano, perchè metterebbe a rischio la sopravvivenza della moneta unica, un rischio che i governi non vogliono correre.

C’è poi il rischio che l’aumento dei tassi e il perdurare del caro energia causino un aumento delle sofferenze che indebolirebbero le banche, sebbene oggi maggiormente capitalizzate: sarebbe un’altra fonte di “frammentazione” che la Bce ha dichiarato di voler scongiurare.

Quindi, perdurando una politica divergente con la Fed, l’euro dovrebbe continuare a indebolirsi e, alla fine, la Bce potrebbe essere costretta ad accettare un’inflazione più a lungo al di sopra dell’obiettivo.

Anche in Europa mercato e imprese mandano segnali contrastanti: l’indice EuroStoxx ha perso quanto Wall Street, e anche da noi, interamente per una riduzione dei multipli di valutazione degli utili, che si stima possano crescere di oltre il 6 per cento in entrambi 2022 e 2023.

Per le piccole imprese le previsioni sono più fosche, ma è un segno che le imprese, per ora, ritengono che una recessione non sia nè certa nè inevitabile.

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