I due leader politici più apprezzati in merito al conflitto sono Giuseppe Conte ed Enrico Letta (7,8 e 7,2 su una scala 0-10), mentre Giorgia Meloni e Matteo Salvini lo sono molto meno (6,4 e 6,2). È quanto indica un recentissimo sondaggio Swg.

Né il neo-pacifismo buonista di Salvini, né il neo-atlantismo tuonante della Meloni convincono. Il primo perché il suo richiamo alla pace (giusto, per carità!) risuona posticcio: chi esaltava il virilismo delle armi, il loro uso disinvolto difendendo l’assessore leghista di Voghera che nell’agosto scorso non ha esitato a freddare un povero immigrato, non risulta credibile come agnellino pasquale. 

La seconda in quanto erede di una tradizione anti occidentale e anti europea con tinte nostalgiche non riesce convincente quando sposa il fronte atlantico e allo stesso tempo festeggia la vittoria di Viktor Orbán, il più filo-russo e il più illiberale di tutta l’Unione europea.

In contesti di grande drammaticità come quello che stiamo vivendo vengono a galla visioni e sentimenti sedimentati nella cultura politica di una nazione di cui né Salvini né Meloni sono interpreti. Su pace e guerra, l’opinione pubblica è stata forgiata dall’esperienza drammatica della Seconda guerra mondiale e dall’invocazione cattolica per la pace. 

A latere di questa grande corrente  vanno ricordate le riflessioni laiche su non-violenza e resistenza passiva di Aldo Capitini e di Andrea Caffi, nonché gli esempi di don Milani e Danilo Dolci. Questa tradizione è stata sempre iperminoritaria, di nicchia, rappresentata politicamente solo dal minuscolo Partito radicale di Marco Pannella che guidava le marce antimilitariste lungo le caserme del Friuli all’inizio degli anni Settanta, irriso da tutti i benpensanti dell’epoca. Nella crisi attuale queste visioni emergono solo a tratti, a macchia di leopardo. 

Oggi gli italiani apprezzano sia le posizioni di Letta, sostenitore convinto dell’invio delle armi all’Ucraina e dell’aumento delle spese militari, sia, ancora di più, quelle di Conte, perplesso e cauto sull’uno e sull’altro provvedimento.

Letta si connette con l’epopea della resistenza in armi, che risuona sempre nei cuori di sinistra, e allo stesso tempo esprime una coerenza istituzionale di affiancamento ai partner europei. E manifesta le sue scelte con una postura seria, ragionata, senza sovraeccitazioni bellliciste né demonizzando chi, anche all’interno del suo stesso partito, segue un altro approccio.

Conte riflette quel basso continuo pacifista dell’opinione pubblica nazionale di marca prevalentemente cattolica, che è scettico nei confronti dello strumento militare. 

Due atteggiamenti diversi, entrambi ampiamente apprezzati, ben lontani dall’aggressività e dagli anatemi di chi usa la testa solo per calcarvi un elmetto, come il sottosegretario alla Difesa Giorgio Mulé che ha bollato le critiche di Conte come una «diserzione». Di questo passo andremo alla caccia dei traditori della patria.

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