L’impressione netta è che nel Pd non si sia raggiunta la totale consapevolezza che la crisi dei partiti politici ha ormai intaccato le istituzioni. E che non ci saranno soluzioni miracolistiche interne ai partiti se non si affronta la natura della loro crisi devastante. Il caso Letta è emblematico. Dopo sette anni di assenza, e dopo esserne uscito, giunge alla guida del partito che lo ha fatto presidente del Consiglio e poi lo ha deposto. Torna, ritrova un partito che ha avuto due scissioni, una a destra, una a sinistra; è cambiato il quadro politico del paese; le istituzioni sono indebolite; i partiti hanno avuto forti emorragie; il suo ha dimezzato i voti. Nel Pd tutti i colpevoli sono in fuga e cercano gli incolpevoli per assegnare la medaglia della sconfitta. Serve un forte chiarimento politico. Letta deve dire «la sua parola» sulla questione centrale, la sua visione di paese. Deve indicare in che assetto istituzionale vogliamo vivere. La crisi delle istituzioni è profonda, il loro funzionamento è fondato sull’art. 49 della Costituzione: i partiti sono le strutture organizzate della democrazia. Ma è una funzione che i partiti hanno perso. Le istituzioni sono state svuotate della loro parte essenziale: la democrazia che si organizza. Dopo il 1992 il partito è entrato in crisi, si è decomposto, e ha trascinato con sé le istituzioni. Faccio un esempio di queste ore: il Pd deve decidere come risolvere la sua crisi nel momento in cui i Cinque stelle sono in una crisi ancora più tragica, eppure l’ex segretario Nicola Zingaretti apre ai Cinque stelle la giunta regionale del Lazio. Una decisione che presuppone un candidato unico per il sindaco di Roma.

Le amministrative

Insomma, il segretario che lascia pone una ipoteca grave su quello che entra, che deve preparare le amministrative. Intanto l’unico sindaco di una grande città certo della sua rielezione, Beppe Sala, lascia il campo del Pd e aderisce ai Verdi in polemica con la politica filo M5s, che i Verdi considerano imbroglioni. Il nuovo segretario Pd non poteva essere provvisorio. Deve avere il tempo di riorganizzare una macchina in disfacimento. Ma deve fare un congresso strategico, di linea politica, sempreché ne ritrovino una condivisa, senza elezione degli organi dirigenti. Per richiamare la militanza persa e per richiamare al voto democratico quella larga parte dispersa verso le posizioni antipartito e populistiche di M5s e Lega. Letta ha di fronte a sé questa strada, altrimenti si dovrà cambiare l’art. 49 perché la Costituzione di un paese moderno non può non contenere un punto di collegamento fra l’individuo e le istituzioni.

Oggi quell’articolo è un santino. La crisi è di tutti i partiti: i colpevoli fuggono, gli incolpevoli sono chiamati in trincea. Vale per tutti. Tutti sono in fuga: i generali sconfitti dei Cinque stelle, quelli di Leu, sono in fuga Matteo Renzi e Matteo Salvini, che però si è assicurato un fuoco di copertura. Per non parlare della crisi del monarca Silvio Berlusconi, che sta peggio della monarchia spagnola. Il Pd deve decidere se i partiti hanno ancora una funzione. E qual è il suo ruolo: è ancora a tutela degli interessi che un partito della sinistra nella storia italiana ha tutelato? Fa specie che non ci sia stata una forte reazione allo sberleffo di Beppe Grillo che si è candidato alla segreteria Pd dicendo «vengo e vi liquido». Anzi, il segretario uscente ha aperto a chi li vuole sciogliere. Questo Pd non crede più nella sua funzione. A Letta non dovrà bastare la soddisfazione che quelli che lo hanno cacciato oggi lo acclamano.

La pandemia dei partiti ha reso malate le istituzioni. I partiti vanno curati. Ma il Pd appare un malato che non si vuole curare. Oggi è chiamato a eleggere il suo nono segretario dai tempi del partito a vocazione maggioritaria di Walter Veltroni. Di questi quattro sono usciti dal partito, uno è uscito e rientrato. Auguriamogli di non aver sbagliato porta girevole.

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