A dieci anni dalla famosa lettera della Bce, firmata anche dalla Banca d’Italia, quell’episodio cruciale continua a suscitare polemiche, ma un’analisi equilibrata della crisi dello spread nel 2011 è necessaria per gestire la reazione alla crisi da Covid.

I fatti sono noti: il 5 agosto 2011 la Bce di Jean-Claude Trichet manda una lettera al governo italiano guidato da Silvio Berlusconi firmata anche da Mario Draghi, all’epoca ancora in Banca d’Italia ma in procinto di trasferirsi alla Bce.

Quella lettera detta condizioni da rispettare perché, in cambio, la Bce continui l’acquisto vitale di titoli di Stato italiani sul mercato dai quali, dopo la crisi greca e le tensioni sull’euro, gli investitori privati si tengono alla larga.

La lettera chiede riforme, dal fisco al mercato del lavoro, per aumentare il potenziale di crescita del paese e misure di austerità fiscale immediata, come l’anticipo del pareggio di bilancio dal 2014 al 2013 per rassicurare i creditori sulla sostenibilità del debito italiano (cioè sulla capacità dell’Italia di far fronte alla spesa per interessi e di rifinanziare i titoli in scadenza).

Quella lettera fu un colpo di stato “neanche tanto dolce”, come ha detto a Domani l’allora ministro dell’Economia Giulio Tremonti? E’ la dimostrazione di una fase di ottusità politica di un’Unione europea dominata dalla Germania e dalle sue ossessioni per il rigore contabile? Oppure fu l’ultima occasione di rimettere il paese su binario della crescita? E quali lezioni ne dobbiamo trarre oggi?

Partiamo dalla lezione politica: nell’agosto 2011 il governo Berlusconi stava già vacillando, la lettera lungi dal ribaltarlo ne allunga la vita, perché Berlusconi e alcuni ministri (Renato Brunetta in particolare) dichiarano che quello della Bce è in realtà il loro programma, e loro lo applicheranno. Poi la Lega si rifiuta di fare la riforma delle pensioni, i mercati capiscono che le promesse resteranno sulla carta, fuggono dai titoli italiani e, sotto la pressione interna ed esterna, Berlusconi deve dimettersi.

A novembre arriva il governo tecnico di Mario Monti costretto a varare misure di austerità credibili con un solo anno di legislatura davanti, quindi più aumenti di tasse che riforme strutturali della spesa nel medio periodo, e ad approvare abbastanza riforme da dare il messaggio che il paese era sulla traiettoria giusta.  

La sostenibilità del debito

Oggi come nel 2011 la sostenibilità del debito pubblico di un paese si valuta sempre con la stessa formula. Lo stock di debito accumulato cresce ogni anno se la spesa per interessi è maggiore del tasso di crescita del paese, con un effetto valanga determinato dalla dimensione del debito precedente, se poi il bilancio è in deficit cresce ancora. Per ridurre il debito, o stabilizzarlo se il tasso di crescita del Pil è inferiore a quello degli interessi serve un doloroso avanzo primario, cioè entrate maggiori delle spese (più tagli o più tasse).

In dieci anni però è cambiato è il contesto: i tassi di interesse reali stanno continuando a diminuire, c’è un grande dibattito tra gli economisti sul perché si assista a questa “stagnazione secolare”, che potrebbe essere una parentesi oppure no. In sostanza, questa tendenza permette di accumulare molto debito pagando meno interessi di quelli che avremmo pagato dieci anni fa. “La nostra conoscenza delle determinanti dei bassi tassi di interesse è comunque limitata e non possiamo escludere che la tendenza si inverta”, ha ammonito Olivier Blanchard, ex capo economista del Fondo monetario, un paio di mesi fa.

L’austerità imposta dieci anni fa dalla Bce, e attuata con la minaccia del default incombente dal governo Monti, si giustificava nell’ambito di quel contesto di mercato, con gli investitori che all’improvviso si erano trovati a dare un prezzo diverso e legato al rischio di bancarotta a tutti i paesi dell’area euro, che invece per un decennio avevano pagato tassi simili. La crisi della Grecia e la decisione, nel 2010, di Angela Merkel e Nicolas Sarkozy di imporre ai creditori privati i costi di un default parziale sul debito greco ha avviato il ricalcolo del rischio per gli altri paesi.

La vera critica che si può fare alle richieste di austerità della Bce di dieci anni fa è aver fissato un obiettivo che si è poi sempre rivelato irraggiungibile, il pareggio di bilancio inserito anche in Costituzione, e quindi di aver creato le premesse per una ulteriore perdita di fiducia nella stabilità dell’Italia. Tanto che meno di un anno dopo quella lettera Draghi dovrà pronunciare il famoso discorso del “whatever it takes” per schierare la Bce a difesa dell’euro, e dell’Italia, a prescindere dai numeri di debito e deficit dei singoli paesi.

Oggi l’Unione europea e la Bce ci prestano soldi senza richieste immediate di austerità perché il contesto è diverso. Ma se le condizioni sui mercati dovessero cambiare, il ritorno al 2011 sarebbe molto più rapido di quanto molti pensano. Per garantire la sostenibilità del debito servono crescita o avanzi primari, oppure una banca centrale che continua a comprare debito anche quando il paese è tecnicamente insolvente.  

Smantellare le riforme 

Roberto Monaldo

Sotto la pressione dei mercati, il governo Monti ottiene nel 2011-2012 i voti di quasi tutti i partiti per approvare molte delle riforme indicate nella lettera, in particolare su fisco e pensioni (con la riforma Fornero).

Nei successivi otto anni, fino alla crisi Covid, governi di ogni colore si dedicano a smantellare tutte le riforme impopolari ma eque e necessarie approvate con la pistola dello spread alla tempia: via le tasse sulla prima casa anche ai più ricchi, regali a pioggia ai baby boomer con la controriforma delle pensioni di quota 100, archiviata ogni ipotesi di liberalizzazioni e riforme delle concessioni, bonus a cascata per decine di miliardi (a cominciare dagli 80 euro renziani) all’elettorato di riferimento, nessuna vera revisione della spesa, una successione di interventi sul mercato del lavoro che l’hanno reso sicuramente più confuso ma non certo più competitivo, mentre le famose “politiche attive” sollecitate anche dalla lettera Bce si sono tradotte soltanto nell’assunzione di qualche migliaio di “navigator”. Col risultato che i disoccupati di quella crisi e di questa attuale non hanno modo di riqualificarsi per trovare un posto nei settori dove qualche opportunità c’è.

La lettera della Bce indicava all’Italia le condizioni per evitare il default. Quelle di austerità fiscale sono state rispettate soltanto parzialmente, poi il contesto è cambiato e le ha rese meno necessarie. Le poche riforme approvate in quel frangente sono state cancellate, col risultato che oggi l’Italia deve di nuovo impegnarsi a fare più o meno le stesse cose nell’ambito del Pnrr e del Recovery Plan che usa la carota invece del bastone.

Il governo Draghi, in carica da sei mesi, ha avviato una sola riforma, quella della giustizia, mentre ha aumentato il deficit di quasi 40 miliardi al mese per mitigare l’impatto economico e sociale della pandemia. Non è detto che lo spread sia il metodo più efficace per imporre le riforme, di sicuro ha costretto l’Italia di allora ad approvarle in fretta mentre le condizionalità abbinate ai 248 miliardi del Pnrr sembrano al momento più lasche, quasi una spinta gentile verso il cambiamento, invece che una frusta dolorosa.

Il grande reset 

Di sicuro la classe politica italiana – di allora e di oggi, visto che in gran parte coincide – ha rimosso le proprie responsabilità nella sequenza di decisioni che hanno portato il paese nel 2011 sull’orlo della bancarotta. E quindi, passata la tempesta, ha fatto esattamente il contrario di quello che avrebbe dovuto per evitare nuove situazioni di pericolo.

Oggi il Covid offre un grande alibi per cancellare anche le responsabilità di questi ultimi anni, un enorme reset agevolato dai fondi europei. Ma gli anniversari – come quello della lettera della Bce del 5 agosto  - servono proprio a ricordare quello che si cerca di rimuovere, nella speranza che non sia la realtà a ricordarci tutte queste rimozioni in modi ben più traumatici.

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