Le dimissioni di Jens Weidmann dalla guida della Bundesbnak, la banca centrale tedesca, segnano la fine di un’epoca al pari delle elezioni che hanno chiuso il ciclo politico di Angela Merkel. E sono una notizia europea, molto più che tedesca, perché la Bundesbank ha sempre rappresentato il principale ostacolo alle politiche straordinarie della Bce delle quali, nella crisi dell’euro e poi in quella Covid, l’Italia è stata la principale beneficiaria.

Il 53enne Weidmann ha annunciato le sue dimissioni a sorpresa, con la motivazione che dieci anni sono «un tempo sufficiente perché sia ora di voltare pagina». Ma è chiara la scelta di far coincidere un’uscita non dovuta, era stato confermato appena due anni fa, con la fine di una fase politica che ha dato alle posizioni di Weidmann legittimità ma anche limiti.

La nuova Germania post-Merkel ha diritto a un nuovo banchiere centrale che ne traduca nel consiglio dei governatori della Bce la linea che sarà espressa dalla futura coalizione di governo. Una interpretazione confermata dall’immediato annuncio di Angela Merkel di lasciare al prossimo governo, tra fine 2021 e inizio 2022, la nomina del successore di Weidmann.

Negli anni di Draghi

27 January 2021, Berlin: Federal Chancellor Angela Merkel (CDU), and Jens Weidmann (r), President of the Bundesbank, greet each other in front of Helge Braun (M, CDU), Head of the Federal Chancellery and Federal Minister for Special Tasks, at the beginning of the Federal Cabinet meeting at the Federal Chancellery. Photo by: Sven Darmer/picture-alliance/dpa/AP Images

Pur nel rispetto formale dell’indipendenza dalla politica, i banchieri centrali tedeschi sono sempre stati molto politici in questi dieci anni tra le due crisi. E non hanno esitato a farsi da parte come atto di estrema protesta quando non riuscivano a influenzare il corso come la cultura del rigore della Bundesbank avrebbe richiesto.

Mario Draghi nel 2011 arriva alla Bce senza rivali perché il suo unico concorrente Axel Weber, predecessore di Weidmann alla Bundesbank, si ritira dalla corsa dop aver capito  che non era tempo per l’ortodossia monetaria nel pieno della crisi finanziaria e che le pressioni politiche lo avrebbero costretto a scegliere se tradire i principi o la linea indicata dal suo paese.

Anche Jurgen Stark, all’epoca capo economista della Bce, si dimette a inizio settembre 2011 quando la Banca centrale europea guidata da Jean-Claude Trichet offre i primi, timidi, sostegni agli stati schiacciati dal debito.

Ora tocca a Weidmann: l’Europa indebitata del Recovery Plan, degli acquisti diretti dei titoli di Stato di paesi ormai dipendenti dalle banche centrali per la solvibilità, non è più la sua. E lo sarà ancor meno quando il cancelliere sarà Olaf Scholz, socialdemocratico, un po’ più flessibile di Angela Merkel in campo fiscale e monetario.

In questi dieci anni, Weidmann ha interpretato con coerenza una posizione chiara: la disciplina fiscale e le riforme possono essere imposte soltanto dal bastone, mai dalla carota.

Paesi come l’Italia, la Grecia, la Spagna o perfino Cipro adottano i provvedimenti necessari a rendere sostenibile il proprio debito pubblico – tramite tagli di spesa e crescita – soltanto quando tale scelta è più conveniente che pagare il prezzo esorbitante preteso dagli investitori per continuare a prestare denaro ed evitare il default.

Weidmann non ha mai creduto alla convergenza attraverso la coesione e la solidarietà. Da guardiano dei risparmi tedeschi, si è sempre preoccupato che tassi di interesse troppo bassi e politiche monetarie espansive penalizzassero ingiustamente i risparmiatori della Germania, privati di rendimenti e opportunità di investimento, per prolungare l’illusorio benessere dei debitori nell’Europa del Sud.

Politica non solo monetaria

Qualche anno fa, nel 2016, Wedimann aveva anche organizzato una singolare trasferta a Roma, con un evento all’ambasciata tedesca per politici e giornalisti, per venire a richiamare il paese alle sue responsabilità: era la fase in cui Matteo Renzi da premier minacciava di sfidare l’Unione europea sul deficit di bilancio.

Per la prima volta, un banchiere centrale straniero si sentiva in diritto di cercare di influire direttamente nelle scelte di politica economica di un altro paese dell’eurozona.

Tra i successi che vanta nella lettera di congedo dai dipendenti, Weidmann cita il suo ruolo di argine alle spinte per snaturare completamente la Bce: la Bundesbank ha evitato che ci fosse una modifica permanente dell’obiettivo di inflazione per la Bce (che resta intorno al 2 per cento annuo), in modo da salvare almeno la credibilità formale dell’istituzione, e si è assicurato che nella revisione strategica del mandato venisse dato il giusto peso ai rischi finanziari sistemici, che è un modo elaborato per riferirsi al pericolo che qualcuno si indebiti troppo.

Il suo testamento è quello di uno sconfitto, che rivendica principi violati nella sostanza (mai nella forma) da partner ai quali non è riuscito davvero a opporsi: «Una politica monetaria orientata alla stabilità sarà possibile nel lungo periodo soltanto se la cornice dell’unione monetaria assicurerà l’unità di azione e responsabilità, se la politica monetaria rispetterà i limiti del suo mandato e non si farà influenzare dalla politica fiscale o dai mercati finanziari».

Nel lungo periodo ha sicuramente ragione Weidmann, la teoria monetaria è dalla sua parte, ma sabbiamo bene che fine siamo destinati a fare tutti nel lungo periodo. E i banchieri centrali, lo abbiamo capito nel decennio lungo delle due crisi dell’euro e del Covid, hanno anche la responsabilità di farci sopravvivere al breve periodo.

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