Non è passato inosservato quel riferimento della presidente Meloni, nel videomessaggio sulla libertà religiosa di qualche giorno fa, alle «sedicenti nuove libertà o diritti». A parte la scelta lessicale forse di cattivo gusto che strizza l’occhio al pubblico più reazionario – ma d’altra parte non c’era da aspettarsi diversamente –, Meloni tocca (e tocca male) un punto ad altissima densità, pieno di implicazioni teoriche e pratiche. E tra queste, due forse meritano un’attenzione particolare.

La prima è il giudizio negativo che le parole della premier sembrano tradire sulla capacità autogenerativa della società di nuovi diritti. È un atteggiamento condiviso da una certa parte dell’opinione pubblica, ma che, oltre ad essere antistorico, è privo di qualsiasi fondamento giuridico.

Sia chiaro: dire cosa è diritto e cosa non lo è, è affare complicato. Siamo nel campo di quelli che il filosofo Walter Bryce Gallie, in un lavoro del ’56, chiamava gli «essentially contested concepts»: difficile stabilire con certezza cosa sono, quando nascono, da dove nascono.

Quello che però è certo è che non può esistere un catalogo chiuso di diritti, e che le nuove pretese emancipatorie che la società produce nel tempo vanno adeguatamente tutelate. D’altra parte, l’art. 2 della Costituzione non blinda neanche il catalogo dei diritti cosiddetti inviolabili, che sono sì quelli espressamente enunciati dal testo costituzionale, ma anche tutti quelli che, pur sorti successivamente, siano riconducibili ai valori che la Costituzione fa propri.

Anche un giusnaturalista cattolico come Jacques Maritain, negli anni ’50, poteva affermare che, se pure la legge naturale è immutabile, vi è perlomeno «progresso e relatività in rapporto alla presa di coscienza di questa legge da parte dell’uomo».

E su questa via la giurisprudenza costituzionale ha potuto affermare la natura di diritti – e anche di diritti inviolabili – a pretese emancipatorie che decenni o anche anni prima non si potevano immaginare. Si pensi al diritto alla privacy, o ai nuovi diritti civili, e in generale ai cosiddetti diritti di ultima generazione.

Non è chiaro a quali «sedicenti nuove libertà o diritti» la Presidente del Consiglio facesse riferimento nel suo videomessaggio. Ma le scelte lessicali lasciano trasparire un giudizio massimalista e ingeneroso che forse sarebbe stato meglio evitare.

C’è poi un secondo profilo, non meno preoccupante. Le parole della premier, infatti, insinuano l’idea di una conflittualità tra questi «nuovi diritti» e la libertà religiosa, che non andrebbe «dimenticata» o messa in «serie B» rispetto ai primi.

Ora, l’idea che un conflitto tra diritti possa risolversi in una vittoria e una sconfitta di una parte e dell’altra è puro terrorismo. I diritti – tutti i diritti – vengono continuamente in conflitto tra di loro, quotidianamente; il compito del decisore politico non è far prevalere l’uno o l’altro, ma trovare il migliore bilanciamento tra di essi.

Certo, è chiaro che liquidarne alcuni come «sedicenti» vuol dire sottrarsi al bilanciamento, ma questa è una di quelle tattiche di semplificazione della realtà che tanto piacciono alla destra, e che si risolvono in una dannosa riduzione della complessità del reale.

D’altra parte, quando si parla di libertà religiosa, siamo al cuore di uno dei bilanciamenti tra i più delicati. C’è un rischio di fondo, contro il quale bisogna tenere ben alta la guardia. Ogni religione, infatti, è portatrice di per sé di un nucleo di preteso assoluto, che sembrerebbe porla in contraddizione essenziale con la democrazia pluralista, che porta invece sempre in sé un nucleo irrisolvibile di relativismo.

È per questo che a lungo religione e democrazia si son guardate torve, e ancora, in alcuni casi, continuano a farlo. Per uscire dal conflitto non basta, come ritiene qualcuno, una actio finium regundurum, per cui la religione dovrebbe ritirarsi nel campo delle realtà ultime lasciando quelle penultime al diritto secolare. Questa strada, infatti, rischierebbe soltanto di spostare il campo del conflitto su cosa sia ultimo e cosa penultimo.

La vera strada per uscirne è soltanto un processo di maturazione della religione che arrivi a «mettere in conto ragionevolmente la permanenza di un dissenso», rinunciando a fare della propria pretesa di verità una regola di condotta per chiunque, purché la controparte non contesti «ai cittadini credenti il diritto di dare il proprio contributo alle discussioni pubbliche con un linguaggio religioso». Le parole citate sono di Jürgen Habermas in un formidabile dialogo con Joseph Ratzinger, del 2004. È così che si esce dal conflitto. Al contrario, formule terroristiche contro «sedicenti nuove libertà o diritti», a perpetuare quella noiosa e logora logica schmittiana amico/nemico, non servono ad altro che ad avvelenare il clima. Che è quello che forse qualcuno vuole.

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