«Mi dia per favore, professore, una ragione per tornare in Italia!». Di solito arriva alla fine del colloquio la domanda, scrive Enrico Letta all’inizio del suo Anima e cacciavite. Per ricostruire l’Italia – uscito a maggio per Solferino – lo trovate anche in edicola. Quante volte se l’è sentita rivolgere dai suoi molti studenti italiani a Parigi, lungo i sei anni che ha passato a insegnare a Sciences Po, a dirigere la sua scuola di Affari internazionali (oltre che a presiedere l’Apsia, l’associazione accademica mondiale di questi studi, l’Institut Jacques Delors, e poi il network europeo di scuole di politica “sulla rigenerazione della democrazia”, che ha fondato a partire dal 2015).

È difficile non pensare che questa domanda anche lui se la sia fatta, alla vigilia del suo rientro in Italia, il 14 marzo scorso. E questo libro, al quale aveva cominciato a lavorare mesi prima, ha finito per essere la risposta che ha provato a darsi, e soprattutto a dare a loro, «per i loro sorrisi e le loro paure… per quella fede che, nonostante tutto, in tanti ancora in Italia conserviamo nel potere dell’istruzione, della fatica e del lavoro per un’idea di progresso e giustizia».

Siamo in molti a crederci infatti, e tanto più ci brucia la protervia tranquilla con la quale da sempre – e senza eccezioni ancora – i ministri dell’Istruzione, anche e soprattutto quelli sostenuti dal partito di cui Letta è il nuovo segretario, esordiscono annunciando riduzioni degli esami scritti, anticipi delle chiusure estive e riforme che all’inutile acquisto di “conoscenze” sostituiscano la gaiezza delle “competenze”. «Diamoci una ragione per credere ancora nel nostro paese», esorta Letta: e anche solo per questa esortazione il libro si dovrebbe correre a comprarlo. Ce la si trova, una ragione?

Dipende da noi, scrive Letta. E già questo è onesto. Non è scritto da nessuna parte che l’Italia debba ridiventare sempre più italietta, come non è scritto il contrario: ed è già molto, se pensate alle filosofie destinali sull’occidente e la modernità, la tecnica e il nichilismo, che hanno a lungo dominato la parte nobile della sinistra, quella intellettuale, mentre la parte meno nobile (e certo non solo della sinistra) badava a combinare gli intrecci di affari e politica a livello municipale e regionale, in attesa del ritorno dello stato negli affari in grande.

Ma pensate invece all’avventura umana di uno che ricerca e insegna in quello che per i suoi studi è ancora il paradiso, Parigi, e può dimenticare per sempre l’incubo degli incontri ravvicinati con la banalità rampante e rapace degli avventurieri della politica. E invece no: come un romano antico o un moderno Byron, corre al richiamo – e io qui ci credo: di quelle voci giovani e ribelli, che cercano una ragione per credere in questo paese, e non di Zingaretti soltanto o della disperazione dei suoi compagni. Perché «io l’ho governato, e al massimo livello, questo nostro bellissimo e amatissimo paese». E – dice Letta – il tempo è venuto di cambiare rotta.

«È il momento di ribellarsi all’inerzia. È il momento di tornare, per chi è fuori. È il momento per i più giovani di dare una chance all’Italia che li ha cresciuti e formati. È il momento per quelli della mia generazione di impegnarsi non con lo spirito dell’accumulo, ma con quello della restituzione». Come? Anche solo a scorrere l’indice trovate tutti i temi di cui dibatteranno le Agorà democratiche con le quali Letta si propone di aprire le leve della politica ai cittadini senza populismi, attraverso l’ascolto delle loro voci. Libertà, paura, povertà, sostenibilità, democrazia malata, intelligenza collettiva. E il libro si chiude come è cominciato, rivolgendosi ai protagonisti dell’istruzione, i ragazzi di oggi.

Non si cresce senza critica

Letta aveva pubblicato nel 2017 Faire l’Europe dans un monde de brutes. E i bruti, i feroci leader del mondo erano in quel momento Trump, Putin, Erdogan e gli altri. Tranne Trump, gli altri sono ancora lì. Ma ora che l’“Europa dei valori” – Dignità, Libertà, Eguaglianza, Solidarietà, Cittadinanza e Giustizia, i sei valori della Carta dei diritti dell’Ue – sembrava improvvisamente ridesta, un doloroso dubbio ci prende. Condivide ancora con Draghi l’idea che o l’Italia si salva come parte dell’Unione, o l’affonda con sé? In un piccolo comune italiano più le parole del sindaco salgono verso il cielo dei valori, più cemento si riversa sul suolo e nell’anima. Nel grande, a livello governativo, la delusione è stata ancora più cocente, finora. Poche parole sono parse più menzognere di “sviluppo sostenibile”. E Next generation Eu non vorrà dire che l’Unione europea sarà veramente per le nuove generazioni solo quando chi governa l’Italia avrà smesso di fare come il sindaco di cui sopra, e dei “valori” avrà finalmente appreso l’aspetto duro oltre a quello dolce degli eurobond: le norme che i valori fondano? L’ascolto è una virtù: ma senza la critica, un ragazzo non cresce. Figuriamoci un paese.

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