Il compromesso nel compromesso sul blocco dei licenziamenti è stato raggiunto. A fronte della doppia data (fine giugno e fine ottobre) prevista ormai da tempo, si è aggiunta una ulteriore finestra di proroga per alcuni settori produttivi considerati ancora in particolare difficoltà. Si tratta dell’ennesima soluzione emergenziale che interviene su un provvedimento, quello del blocco dei licenziamenti, che è stato facile istituire ma che si sta rivelando molto complesso da terminare.

Fin qui però siamo nell’ambito del prevedibile, quello che appare quantomeno straniante è invece la concentrazione di tutto il dibattito sul lavoro (fatta salva la boutade estiva sui lavoratori stagionali) su questo tema. Come se il Pnrr a partire dal Next Generation EU, non indicasse chiare priorità soprattutto per la riqualificazione dei lavoratori in due ambiti ben definiti: digitale e transizione ecologica.

Sembra quasi che questa sia una questione rimandabile a quando avremo risolto il nodo licenziamenti. Ma in qualunque modo questo finirà, con persone licenziate o con persone che confermeranno il loro posto di lavoro, il nodo del mercato del lavoro dei prossimi 10 anni rimarrà.

Perché pare non ci si accorga che stiamo giocando con il fuoco, in un terreno dove scottarsi può fare davvero molto male. Infatti tutti gli studi sul tema sono ormai concordi nel segnalare che a fronte dell’incentivazione a investimenti in digitalizzazione dei processi produttivi e nella transizione ecologica, che incide anch’essa sui processi, la domanda di lavoro muta profondamente.

Opportunità e rischi

Una opportunità quindi, come si riflette nel dibattito americano, per accompagnare con robuste politiche del lavoro e di riqualificazione lavoratori oggi occupati nei settori caratterizzati da meno valore aggiunto a settori in cui oggi c’è scarsità di offerta di lavoro e allo stesso tempo spazio per lavoro di qualità. Pensiamo soltanto alla domanda di lavoro che potrà generare la riconversione dei cicli di vita dei prodotti secondo le diverse forme che l’economia circolare può assumere.

Allo stesso tempo però siamo davanti anche ad un grande rischio che somiglia pericolosamente ad una forma di masochismo da mancata programmazione. Più si stimoleranno investimenti nel digitale e nella transizione ecologica più ci si troverà a mettere in seria difficoltà quei posti di lavoro che vengono man mano resi inutili da queste trasformazioni.

Pensiamo a tutte le mansioni routinarie e standard nella manifattura. Queste, e i lavoratori che le svolgevano, sono già diminuite molto negli ultimi decenni ma l’Italia oggi è uno dei paesi OCSE in cui ci sono più lavoratori adibiti ad esse.

Ciò significa più lavoratori a rischio nel momento in cui verranno adottate diffusamente tecnologie che le rendono obsolete e/o eccessivamente costose. Pensare di occuparsi di tutto questo a emergenza conclusa, peraltro di fronte alla conferma che l’emergenza permane sono in alcuni (pochi) settori, potrebbe quindi costarci caro.

Anche perché sia gli esempi stranieri sia la storia italiana mostrano che le politiche del lavoro non sono qualcosa che si costruisce in poco tempo e soprattutto non a tavolino.

Non basta prevedere strumenti di riqualificazione per convincere i lavoratori a riqualificarsi, occorre accompagnare le persone per comprendere le transizioni che stanno avvenendo, i loro rischi e i loro vantaggi. E questo non si può fare con l’ingegneria sociale, ma con la prossimità, coinvolgendo gli attori dal basso e nei territori. 

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