L’Italia ha scoperto cosa fosse un processo per stupro nel 1979: quali dinamiche lo guidassero, che viso avessero gli imputati di un reato tanto odioso e che viso avesse la vittima. L’Italia ha scoperto anche che, nel corso delle udienze, i ruoli di vittima e imputati lentamente si erano invertiti. Esattamente ciò che sta accadendo oggi nel dibattito pubblico sul caso di Alberto Genovese, l’imprenditore accusato di aver violentato una ragazza di 18 anni durante una festa e sotto l’effetto di droghe.

In quel 1979, nel pieno delle battaglie femministe e degli anni di piombo, Rai 2 ha mandato in onda un documentario dal titolo Processo per stupro, prodotto da sei registe del servizio pubblico nazionale. Le telecamere riprendevano lo svolgimento in tutte le sue fasi di un processo per violenza carnale, celebrato l’anno prima davanti al tribunale penale di Latina.

La vittima era una ragazza di 18 anni di nome Fiorella, lavoratrice in nero in cerca di impiego, che aveva accettato l’invito di un suo conoscente a recarsi in una villa di Nettuno per discutere di una possibile assunzione come segretaria. Invece, in quella villa Fiorella era stata sequestrata e violentata da quattro persone. Lei li aveva denunciati.

Al momento dell’arresto gli indagati avevano ammesso i fatti, poi avevano ritrattato in sede di interrogatorio. Durante l’istruttoria, invece, avevano dichiarato che il rapporto sessuale era avvenuto, ma che era stato pattuito un compenso di 200mila lire. Un compenso poi non pagato, perché i quattro non erano rimasti soddisfatti della prestazione.

I soldi sono una costante di quel processo. Gli imputati depositano in aula 2 milioni di lire per risarcire il danno e quindi liquidare Fiorella, che si era costituita parte civile. Lei, che aveva invece chiesto una lira come risarcimento simbolico, non li accetta. Così la tecnica difensiva diventa quella di spostare l’attenzione sulla vittima.

Sul banco dei testimoni sfilano gli amici degli imputati, che raccontano di come Fiorella, anche se era fidanzata, spesso si intratteneva al bar con altri uomini. Alla madre di Fiorella, invece, viene chiesto come mai avesse permesso alla figlia appena maggiorenne di andare a un appuntamento con un uomo che non le era stato presentato. A Fiorella domandano con quali modalità sia avvenuto un rapporto orale e se ci fosse stata «fellatio cum eiaculatione in ore».

Il documentario termina con la sentenza: tre vengono condannati a un anno e otto mesi, il quarto a due anni e quattro mesi. Tutti beneficiano della libertà condizionale. Prima, però, l’avvocata Tina Lagostena Bassi pronuncia l’arringa che pone la vera questione: perché, nei processi per stupro, la donna diventa l’imputata?

«Nel caso di quattro rapinatori che con la violenza entrano in una gioielleria e portano via le gioie, nessun avvocato si sognerebbe di cominciare la difesa, che comincia attraverso i primi suggerimenti dati agli imputati, di dire ai rapinatori: “Dite che però il gioielliere ha un passato poco chiaro, dite che ha commesso reati di ricettazione, che è un usuraio, che evade le tasse!”. E allora io mi chiedo, perché se invece che quattro oggetti d’oro l’oggetto del reato è una donna in carne e ossa, ci si permette di fare un processo alla ragazza?».

Nulla è cambiato

A quarant’anni di distanza, viene da chiedersi cosa sia cambiato. Nel caso dell’imprenditore Alberto Genovese, accusato di aver sequestrato, stuprato e seviziato per una notte una ragazza di 18 anni, l’attenzione si è spostata sul perché lei, così giovane, fosse a una festa in cui veniva offerta droga.

Vittorio Feltri su Libero ha scritto: «La ragazza pensava che entrando nella camera da letto del facoltoso ospite avrebbe recitato il rosario? Non ha sospettato che a un certo punto avrebbe dovuto togliersi le mutandine senza sapere quando poteva rimettersele?».

La logica è quella dell’accettazione del rischio: se accetti l’invito a una festa del genere, metti in conto di uscirne piena di lividi la mattina dopo. Perché si sa che l’occasione fa l’uomo ladro, anche nel 2020.

Proprio come nel 1978 quando Angelo Palmieri, il difensore di uno degli imputati, diceva: «Avete cominciato con il dire “Abbiamo parità di diritto, perché io alle 9 di sera debbo stare a casa, mentre mio marito, il mio fidanzato, mio fratello vanno in giro?” E allora ognuno purtroppo raccoglie i frutti che ha seminato. Se questa ragazza si fosse stata a casa, se l’avessero tenuta presso il caminetto, non si sarebbe verificato niente». Tradotto: solo le donne di facili costumi possono subire violenza.

Si legge nel codice penale: «Chiunque, con violenza o minaccia o mediante abuso di autorità costringe taluno a compiere o subire atti sessuali, è punito con la reclusione da sei a dodici anni».

La fattispecie non contempla attenuanti specifiche, sociali o di contesto: il giudice deve valutare se il rapporto sessuale sia il risultato di violenza, minacce o abuso di autorità. Non è sempre facile: ci sono i casi di violenza chiara con referti medici che la certificano, ma anche quelli in cui la versione di imputato e vittima divergono sul fatto che il rapporto fosse consenziente o meno.

Diverse sono anche le strategie processuali. Il reato ha una pena molto alta, quindi spesso l’imputato sceglie il rito abbreviato, che evita il processo pubblico e velocizza la conclusione perché il giudice decide “allo stato degli atti”, in base alle prove raccolte senza che se ne costituiscano altre in dibattimento: questo dà immediato diritto alla riduzione di un terzo della pena e, in caso di condanna, consente comunque di impugnare la sentenza con ricorso in appello.

Anche la rifusione del danno dà diritto a un altro terzo di riduzione della pena. L’imputato offre una somma a risarcimento del danno morale della vittima che, se accetta, viene liquidata e rinuncia a essere parte civile nel processo e quindi a incidere, anche se in modo ridotto, sui suoi sviluppi.

Se la vittima vuole rimanere nel processo e non accetta la somma perché la ritiene non congrua, il difensore dell’imputato le potrà offrire comunque in deposito del denaro presso il giudice, al fine di beneficiare dell’attenuante.

Proprio questa formula di pagamento, che è possibile per tutti i reati per ottenere l’attenuante, nasconde un sottinteso particolarmente ambiguo nel caso specifico della violenza sessuale: lo stupratore ricco può permettersi di liquidare la vittima, offrendole una somma maggiore. Non esiste infatti un parametro uniforme e la congruità viene valutata dal giudice.

Ipotizzando un conteggio sugli anni di possibile condanna: da una pena di 6 anni si arriva a 4 grazie alla scelta del rito, ridotti a 2 anni e 8 mesi grazie al risarcimento del danno e la pena può diminuire ancora se il giudice riconosce l’esistenza di altre circostanze attenuanti.

Le denunce

Al netto dei processi, il vero nervo scoperto è che il reato venga denunciato oppure taciuto. Per favorire le denunce con un percorso protetto nel 2019 è stato approvato il Codice rosso, una norma che velocizza le procedure: dal momento della denuncia, il pubblico ministero deve ascoltare la vittima entro tre giorni.

Secondo l’ultimo rapporto Istat sulla violenza di genere, durante il primo lockdown le richieste di aiuto al numero verde 1522 sono raddoppiate ma solo il 14 per cento delle vittime ha denunciato. E in questa scelta gioca un ruolo non secondario la paura della vittima, nell’aula di giustizia e prima ancora magari sui giornali, di finire sul banco degli imputati per come si veste, i luoghi che frequenta o le sue compagnie. Un certo modo di raccontare la violenza sessuale provoca questo: autoassoluzione dello stupratore, convinzione della vittima di aver indotto la violenza.

Lagostena Bassi, sempre quarant’anni fa, la descriveva così: «È solidarietà maschilista perché solo se la donna viene trasformata in un’imputata si ottiene che non si facciano denunce per violenza carnale».

Non solo i giornali e l’opinione comune, anche la legislazione ha giocato un ruolo determinante nel considerare le donne oggetti e non vittime di violenza: fino al 1996, la violenza sessuale era inserita nella sezione del codice penale dei “delitti contro la moralità pubblica e il buon costume”, non in quella dei crimini contro la persona. La stessa moralità pubblica che però vale ancora oggi come per Fiorella nel 1978: se la diciottenne del 2020 fosse stata al suo posto – cioè a casa – la violenza non sarebbe avvenuta.

© Riproduzione riservata