L’assertività della ministra della Gustizia Marta Cartabia – «il ddl sulla giustizia penale non si tocca» – si è infranta contro l’intransigenza dei Cinque stelle che volevano una serie di modifiche. Inevitabilmente, da una parte e dall’altra si minimizzano o si enfatizzano i cambiamenti apportati al testo originale. Ciò che tuttavia è indubitabile è che il testo è stato cambiato. E per farlo ci sono volete lunghe ore di trattativa, concludendo il Consiglio dei ministri a notte fonda come ai tempi del Conte II.

Niente di strano: quando ci sono delle posizioni diverse si media e si tratta fino a che non si trova l’accordo. E questo vale soprattutto per una Repubblica parlamentare come la nostra dove anche un presidente del Consiglio autorevole come Mario Draghi non può trasformarsi né in un premier all’inglese, né tantomeno in una sorta di presidente. La stima per l’ex governatore della Bce non può far dimenticare che spetta al parlamento, l’organo che rappresenta la sovranità del popolo, la parola finale.

L’equilibrio incrinato

Quindi il buon andamento di un governo dipende dalla garanzia di un sostegno convinto dei partiti che compongono la maggioranza. Quando i rapporti nella coalizione si incrinano, come abbiamo visto nell’inverno scorso con gli strappi di Italia viva nei confronti del Conte II, il governo perde di efficacia. E finisce anche per perdere la fiducia.

Si profila un rischio simile per Draghi? Certo, il premier gode di una fiducia nazionale e internazionale difficile da ignorare, ma dall’altro le frizioni di questi giorni non rimarranno un caso isolato.

In primo luogo perché l’arco politico è troppo ampio. I pistoleri e i no-vax della Lega non possono convivere a lungo con i democratici di Enrico Letta. Tra coloro che difendono, a prescindere, chi abbatte un povero disgraziato disarmato o strepita di dittatura sanitaria, e coloro che difendono i diritti degli ultimi e cercano di garantire il massimo di sicurezza per evitare altri lockdown, le mediazioni non reggeranno più di tanto.

La posizione del M5s

Ma oltre a queste divaricazioni, un’altra difficoltà incombe sull’esecutivo: la nuova leadership del Movimento 5 stelle. Dalla nascita del governo Draghi a oggi il M5s ha navigato in una sorta di porto delle nebbie.

Si è dedicato soprattutto ai suoi problemi interni. È passato attraverso una ulteriore, ennesima, emorragia di parlamentari (ne ha persi un quarto dall’inizio legislatura) litigando sul via libera al governo Draghi, ha sciolto con una faticosa trattativa il rapporto con Casaleggio junior, ha affrontato il durissimo, imprevisto, scontro tra Grillo e Conte sul nuovo assetto del Movimento. Sei mesi di introflessione e di virtuale assenza dalla scena politica. Ora che l’assetto del nuovo M5s è in dirittura d’arrivo con le votazioni su una nuova piattaforma per l’investitura ufficiale di Conte e per il nuovo statuto, il M5s ritorna in campo.

Rispetto al reggente Crimi e ai pallidi presidenti dei gruppi parlamentari ora i pentastellati schierano un leader autorevole. Giuseppe Conte ha dalla sua un’esperienza di capo del governo in una situazione di drammatica emergenza – un’esperienza di quelle che “fanno crescere” – un riconoscimento internazionale, e una popolarità ancora altissima.

Tre caratteristiche che, unite al rappresentare il partito maggiore, ne fanno un interlocutore primario nella maggioranza, come già si è visto in questi giorni: pur essendo entrato solo nelle battute finali nella discussione sulla riforma della giustizia, le modifiche al ddl Cartabia sono anche dovute ai suoi interventi.

Finora l’esecutivo Draghi si è avvalso del sostegno dei pentastellati senza concedere loro quasi nulla proprio perché erano privi di guida e di direzione. L’imprimatur iniziale di Grillo al nuovo governo era servito a far passare di tutto.

Ora che i Cinque stelle hanno una nuova guida, riconosciuta e legittimata, faranno pesare i loro voti.

E qui hanno due strade davanti: giocare la loro forza parlamentare in solitaria con una azione di disturbo continuo, guadagnandosi così l’immagine dei guastatori (o addirittura dei “sabotatori”, visto il clima); oppure agire in sintonia con il Pd per evitare uno scivolamento del governo a destra, soprattutto sui temi economico-sociali.

Più ancora che i destini dell’esecutivo, nei prossimi mesi saranno in gioco i rapporti nel centrosinistra e, di conseguenza, la configurazione complessiva del sistema partitico.

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