L’ossessione della politica del XXI secolo si chiama “identità”. È sotto questa bandiera che, in anni recenti, si sono prodotti sconvolgimenti politici come il referendum del 2016 sulla Brexit nel Regno Unito e, nello stesso anno, l’elezione di Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti. Ma si definisce “identitaria” anche la politica della destra radicale che, in Europa, rigetta i valori liberali, i processi di integrazione sovranazionale e il multiculturalismo, in nome della sovranità nazionale e di ideali nativisti.

L’uso politico dell’identità non è in sé un fenomeno nuovo. La nozione, riferita a dimensioni come la religione o la “razza”, ma anche il genere o la sessualità, è entrata nelle scienze sociali, e attraverso queste nel discorso comune, alla metà del secolo scorso. Gli appelli all’identità sono aumentati grandemente negli anni Sessanta e successivi in corrispondenza con l’emergere dei movimenti della nuova sinistra, portando a parlare di “politica dell’identità” per indicare una pluralità di forme di attivismo fondate su esperienze condivise di ingiustizia da parte dei membri di determinati gruppi sociali.

Di nuovo, nel presente, c’è che l’identità è in grado di suscitare grandi investimenti emozionali di segno opposto, reazionario, che sottopongono a crescente tensione le procedure e i principi delle democrazie avanzate. Inoltre, i conflitti identitari occupano uno spazio crescente nel campo politico. A partire dal secondo decennio del secolo, scrive Francis Fukuyama, «la politica identitaria», cioè la lotta per il riconoscimento della dignità dei gruppi sociali, «è la lente attraverso la quale gran parte delle tematiche sociali vengono viste su tutto l’arco dello spettro ideologico». Da sinistra, ma anche da destra.

Le “maggioranze silenziose”

La differenza tra le due parti, però, non è di poco conto. L’attivismo politico di gruppi minoritari o di soggetti storicamente esclusi nasce dalla consapevolezza di una condizione di oppressione – che può implicare sfruttamento economico, ma anche marginalizzazione sociale, privazione di potere, cancellazione culturale, violenza – ed è volto a produrre un allargamento del campo dei diritti e delle libertà. La nuova politica dell’identità, invece, su entrambe le sponde dell’Atlantico, rappresenta le istanze di gruppi maggioritari, che non chiedono di essere inclusi, ma di essere riconosciuti come l’unico “vero” popolo o nazione, e di escludere altri gruppi dal godimento di pari diritti civili, politici e sociali.

Leader come Donald Trump, Viktor Orbán, Jarosław Kaczyński, Jair Bolsonaro, Recep Tayyip Erdoğan, Marine Le Pen o, in Italia, Matteo Salvini e Giorgia Meloni, devono il loro successo alla promessa di proteggere le “maggioranze silenziose” dei loro paesi – ovvero la classe media e le classi lavoratrici – dai sentimenti di insicurezza, spaesamento e perdita indotti dalle dinamiche della globalizzazione. Non elaborano però, a questo fine, letture di classe, né offrono ricette redistributive contro la crescita delle disuguaglianze.

Piuttosto, fanno appello a status ascritti dalla nascita, capaci di provocare sentimenti larghi di appartenenza, come la nazionalità, la “razza”, la cultura o la religione. Si ergono a difesa dei “nativi” contro gli stranieri, e della famiglia eterosessuale contro nuovi modelli di vita affettiva. Si fanno interpreti, più che di programmi, di valori.

L’attuale avanzata di progetti politici di segno sovranista e autoritario deve essere letta sullo sfondo della crisi dell’ordine neoliberista globale, con i suoi contraccolpi economici e culturali. Non, però, come una risposta capace di disegnare un’alternativa alle contraddizioni del tardo capitalismo, né come una rivitalizzazione della politica contro la deriva oligarchica delle democrazie.

L’enfasi sull’identità, la tradizione e i valori appare, al contrario, come il segnale più manifesto della subalternità del discorso populista di destra alla dottrina economica dominante, di cui non intacca la logica essenziale. In più, la matrice antiegualitaria degli appelli al nativismo, al familismo, al conservatorismo religioso, al modello “law and order”, rivela la sinergia tra questi progetti e l’attacco neoliberista alla democrazia.

Neoliberismo e conservatorismo

La tesi che intendo sostenere è che esiste un’affinità nascosta tra neoliberismo e conservatorismo morale: entrambi sviliscono i valori dell’uguaglianza, della partecipazione sociale, della libertà politica e dello stato di diritto, e l’uno finisce per rinforzare l’altro. La destra radicale populista va quindi guardata non come una reazione democratica al dominio del mercato, ma come un “Giano bifronte”, che si alimenta degli effetti distruttivi prodotti dal neoliberismo in campo sia economico, sia sociale e politico, ma a sua volta spinge sull’individualismo competitivo, sul mantra dell’efficienza, e spesso su politiche a vantaggio dei più ricchi, mentre rafforza le gerarchie di classe, genere, “razza”, religione.

I leader populisti di destra, i campioni della svolta conservatrice, prendono oggi a bersaglio quelli che sono additati come prodotti dell’individualismo liberale: i diritti universali, le libertà delle donne e delle minoranze sessuali, il multiculturalismo. Si può quindi essere tentati di leggere la loro salita al potere come il segnale di una rivincita del tradizionalismo e della cultura gerarchica contro l’individualismo.

Tuttavia, la loro parabola si comprende più adeguatamente se la si considera come la manifestazione estrema di un individualismo che ha radici proprio nei decenni di trionfo della società di mercato, degli imperativi del consumo, della competizione economica. Meglio ancora, come l’imporsi dell’ideologia del “me ne frego” sui valori dell’uguaglianza e della democrazia.

Persino un politico come Orbán, fautore del progetto più compiuto di egemonia culturale conservatrice nel contesto delle democrazie occidentali, ostile al liberalismo dei diritti e difensore della cultura “autentica” del popolo ungherese, viene accusato da osservatori interni alla destra ungherese di essersi allontanato dal conservatorismo “rispettabile” e dal suo sistema ideologico classico, che valorizza la continuità contro il cambiamento e difende l’ordinamento politico-sociale.

Uno stile di governo animato da una carica antisistema, dall’avversione verso tecnici, burocrati e intellettuali, dall’attacco ai corpi intermedi, e da un discorso politico ansioso di rompere i tabù del politicamente corretto, non solo fa di Orbán un perfetto esempio del populismo del nuovo secolo, ma ne evidenzia anche i tratti più chiaramente individualistici.

Nelle parole del leader ricorre spesso l’aggettivo “illiberale”, come opposto di “liberal”, cioè di tutto ciò che può essere ricondotto al globalismo, al multiculturalismo, ai valori “estranei” alla nazione; ma risuona anche la parola “libertà̀”, per difendere il principio della competizione individuale.

Molti studiosi e osservatori dei fenomeni politici hanno evidenziato quanto sia cruciale, per la crescita dei nuovi populismi, l’affermarsi della società “disintermediata” dell’età del neoliberismo, dove i corpi intermedi, le organizzazioni che filtrano e associano le istanze dei cittadini, risultano indeboliti e delegittimati.

In questo senso possiamo parlare di individualismo autoritario, cioè di una forma di individualismo che da un lato esprime una continuità con i valori della società neoliberista, dall’altro difende apertamente un ordine diseguale d’impronta “tradizionale”, tanto nelle relazioni pubbliche quanto in ambito privato e familiare.

È precisamente perché fa leva sull’Io, sulla singolarità irriducibile (e rancorosa) di questo pronome, che il populismo può mobilitare sentimenti d’odio verso determinate categorie di “diversi” e di “nemici”. E quella che appare come la vittoria di una visione olistica, della totalità, contro le pretese dell’individuo, non è altro, in realtà, che l’affermarsi delle pretese individuali, di coloro che formano una parte della collettività, contro le altre.


Questo testo è un estratto del libro di Giorgia Serughetti Il vento conservatore. La destra populista all’attacco della democrazia, uscito ora per Laterza.

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