Dopo la caduta del regime fascista, il 25 luglio 1943, il re proclamò che entro «quattro mesi» sarebbe stata eletta «una nuova Camera dei deputati», come se si trattasse di una ordinaria transizione da un parlamento ad un altro. Ma l’alleanza dei partiti antifascisti sconfessò il monarca e aprì di fatto la fase costituente.

Dopo l’8 settembre, il Comitato di Liberazione Nazionale oppose un governo provvisorio di coalizione con lo scopo di avviare la transizione verso una nuova forma istituzionale. L’esecutivo guidato da Ivanoe Bonomi stabilì la data delle nuove elezioni per decidere sul regime e per eleggere un’Assemblea Costituente.

Intanto, con il decreto luogotenenziale numero 23 del 1 febbraio 1945 stabilita la «estensione alle donne del diritto di voto». La nuova Italia avrebbe avuto una natalità democratica.

Non ci si sofferma mai abbastanza su questo “inizio” rivoluzionario di autogoverno. Nè sul fatto che il referendum del 2 giugno poneva limiti fondamentali ai rappresentanti: dovevano scrivere la Carta e non legiferare; non potevano scegliere la forma istituzionale.

I costituenti furono come i redattori di un manoscritto non loro: lavorarono sulla forma, non sulla sostanza. Gli autori erano i cittadini e le cittadine, che avevano scelto sia la forma repubblicana sia i redattori che dovevano tradurla in articoli comprensibili a tutti. 

Partire dal potere popolare costituente non fu una scelta scontata. Non tutte le forze politiche erano favorevoli ad affidare ad un referendum la decisione sulla forma istituzionale. Non lo era Alcide De Gasperi, che ottenne dall’assemblea della Dc di lasciare libertà di coscienza agli elettori cattolici su monarchia o repubblica. Non lo erano autorevoli giuristi come Santi Romano. Ma il presidente della Consulta, Vittorio Emanuele Orlando, difese la scelta del referendum (modificando la sua stessa posizione) come condizione per scongiurare lo strapotere dell’assemblea eletta. E Il 2 giugno la sovranità dimostrò di appartenere al popolo.

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