Se il principale dovere di un ex capo di governo è quello di rimanere in silenzio, allora l’ex primo ministro laburista non è un buon esempio di garbo istituzionale.

Gli interventi di Tony Blair di fronte a questioni di governance mondiale e geopolitica sono infatti ormai diventati una nuova categoria giornalistica. A ogni crisi internazionale fra commenti sul suo Institute for Global Change, articoli sul Guardian con consuete traduzioni sulle ben note testate europee e interviste televisive, l’ex primo ministro da quando si è dimesso lasciando il n. 10 a Gordon Brown non ha praticamente mai saltato una crisi. Non poteva di certo astenersi dall’intervenire su quella afghana.

In un commento pubblicato sul sito dell’IGC il 21 agosto, giusto in tempo per farsi intervistare il giorno seguente da Sky News, ci è quindi toccato leggere e ascoltare direttamente dalla sua voce come la decisione britannica di seguire il ritiro «unilaterale» dall’Afghanistan da parte degli Stati Uniti sia stata una scelta «tragica», «pericolosa» e «non obbligata». In obbedienza all’ «imbecille» slogan presidenziale di voler porre termine alla «guerra senza fine», il governo guidato da Boris Johnson, almeno secondo Blair, si è dunque accodato alla decisione statunitense tradendo il popolo afghano, mettendo in pericolo l’Occidente e relegando il Regno Unito in seconda fila rispetto alla «prima divisione» delle potenze mondiali.

A parte l’uso ad effetto dell’aggettivo «imbecille» – piuttosto raro per l’ex primo ministro e che pare sia stato per quel giorno uno dei lemmi più ricercati su Google – e a parte la mancanza del sostantivo globalizzazione, le parole-chiave blairiane ci sono tutte ma, ahimè, sono qui usate enormemente fuori luogo. Sono vecchie nel senso che delineano una politica ampiamente superata e indicano strumenti non più utilizzabili in questa crisi dove tutto sta cambiando.

Gli anni delle guerre

Se emendato di nomi propri e date, l’intervento di Blair potrebbe infatti sembrare uno di quegli editoriali scritti per condannare le scelte del suo di governi, quando seguendo quello che era l’allora imperativo morale, Blair impegnava l’esercito britannico a fianco di George W. Bush in Iraq, prima, e Afghanistan poi.

Veniva disegnato dalla satira inglese come un cagnolino scodinzolante al fianco degli americani; trascinando una riluttante Nato Blair diede legittimità internazionale a una operazione militare incoerente e mediaticamente manipolata; impose al suo partito una eredità difficile che con tutta probabilità non sarà purgata per almeno un’altra generazione. Ambizioni e fallimenti che dopo venti anni tornano come un fantasma sugli equilibri globali e sulla politica britannica.

Le spaccature del Labour Party

Quanto Tony Blair stia difendendo l’indifendibile è evidente, così come è chiaro che la sua opinione non incida granché. Se quindi sul piano internazionale la sua ombra dopo questo inutile intervento risulterà pleonastica, il suo spettro però continuerà a riapparire e ‘a fare danni’ in casa. Il partito laburista rimane infatti ancora schiacciato dall’immagine smagliante ma completamente passé del New Labour.

La lotta intestina che spacca il partito si delinea da un certo punto di vista ancora fra antagonisti e nostalgici più o meno silenziosi. Cos’altro è stato il corbynismo se non appunto l’anti-Blairismo? Che a specchio è andato a calcificare il fantasma di Blair e dei suoi errori in politica estera?

In questo quadro, il partito che ora con grande fatica guida Keir Starmer è incapace di produrre un’analisi e una risposta alternativa a questa crisi che è senza dubbio uno spartiacque storico. In aggiunta, per quanto Corbyn sia stato un leader ‘di successo’ in termini di voto popolare, nel contesto del sistema politico inglese è pur sempre derubricato a fallimento elettorale.

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Le conseguenze sono importanti. Il sistema politico inglese, arcaico e fragile nel suo funzionamento rappresentativo, ha bisogno di una opposizione in parlamento che ‘frusti’ il governo.

Sono anni invece che il Labour è sterilmente concentrato solo su stesso e non sembra nemmeno riuscire a liberarsene nell’immediato. Solo di qualche giorno fa l’espulsione del regista Ken Loach. Insomma, il campo rimarrà ai conservatori per molto tempo ancora; se ancora sotto la guida di Boris Johnson è altra cosa però.

Il populismo centrista

Il protagonismo di Blair sta infatti esponendo tutti i limiti del populismo del primo ministro. Johnson sperava infatti di aver definitivamente archiviato le beghe passate, dall’Europa ai vari altri conflitti internazionali, per potersi concentrare sulla sua anacronistica e minore versione di “colonialismo su invito”.

Ma il fantasma di Blair e l’accelerazione inaspettata della crisi afghana stanno lì a ricordargli le conseguenze lunghe e larghe della storia. Le voci di fronde interne nei Tories per sostituire lui e i suoi sono sempre più insistenti.

Un’alternativa rassicurante e moderata al populismo un po’ rozzo di Johnson rinsalderebbe il sentimento nazionalista e l’egemonia conservatrice che si sono formati sull’onda del successo della campagna di vaccinazione. E benché si tratti di una serie di rumors non confermati, il fatto che sia la stampa vicina al primo ministro a pubblicarli insistentemente non è di certo un buon segnale per Johnson.

Persino il G7 convocato d’urgenza per il 24 agosto amplifica lo smarrimento britannico, a sancire non solo l’isolamento (voluto) dall’Europa, ma anche la (definitiva?) debolezza delle relazioni con gli Stati Uniti.  

La lista dei precedenti storici è lunga, dall’imperialismo vittoriano e le guerre anglo-afghane dell’Ottocento alla crisi di Suez nel 1956. Il partito conservatore era alla guida del paese in molti di questi momenti; e in molti di questi casi non è finita bene per il primo ministro in carica. Si pensi a Anthony Eden finalmente arrivato a Downing street dopo anni all’ombra di Winston Churchill e velocemente sostituito da Harold Macmillan dopo l’umiliazione di Suez.

Qualsiasi comparazione credo però sia inutile. Questa che stiamo vivendo è una congiuntura storica nuova per gli Stati Uniti e per l’Europa. Gli strumenti intellettuali e politici per affrontarla devono essere altrettanto nuovi e coraggiosi. Tony Blair non è di aiuto. E pace per i supporter  che ancora ha in Italia.

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