Rispetto a tutti gli altri paesi europei alle prese con le conseguenze economiche del coronavirus, l’Italia deve fare i conti anche con il protagonismo delle sue mafie. Tutte le agenzie pubbliche di contrasto al crimine e tutti coloro che hanno responsabilità istituzionali in materia (Dna, Dia, procuratori della Repubblica di diversi distretti giudiziari, presidente della Commissione parlamentare antimafia, istituti di ricerca sul crimine, associazioni di categorie e così via) insistono da mesi sulla necessità di scongiurare ciò che è sempre avvenuto dopo ogni grande tragedia in Italia: che cioè forze criminali, in particolare quelle di tipo mafioso, possano diventare interlocutrici attente, più di quelle istituzionali, dei bisogni economici di diverse imprese o attività commerciali e terziarie in grandissima difficoltà a causa del crollo di domanda e di liquidità. Le mafie sono sicuramente in grado di proporre aiuti al sistema commerciale-imprenditoriale più immediati e più attraenti di quelli pubblici per la ampia disponibilità di liquidità e per l’opportunità che loro si presenta di riciclare illeciti profitti. E di farlo al sud come al centro-nord, dal piccolo negoziante al medio imprenditore, dal settore commerciale a quello terziario fino a quello industriale. Dunque, alla luce di fatti avvenuti nel recente passato, insistere su questa potenzialità “espansiva” delle mafie non sembra affatto esagerato.

Da tempo è chiara la causa della straordinaria liquidità delle mafie: esse controllano una delle attività più redditizie nella storia dell’economia, cioè la produzione, la trasformazione e il commercio delle droghe, un mercato che può contare su 250 milioni di persone che nel mondo assumono una dose almeno una volta l’anno e su 25 milioni di veri e propri tossicodipendenti. Ogni anno almeno 200.000 persone muoiono per conseguenze legate al consumo. E i profitti che se ne ricavano sono così ingenti proprio perché si tratta di una merce illegale ma con una domanda di massa. È la prima volta che nella storia dell’umanità il crimine svolge un ruolo economico e finanziario così vasto e influente. E non solo in Italia, naturalmente.

Guardare il paese

La domanda semplice è questa: come mai le mafie accompagnano la storia del nostro paese dal 1861 in poi? E come mai lo fanno da almeno due secoli nel sud, già prima dell’Unità d’Italia? Purtroppo le spiegazioni sulle cause del loro successo storico sono ancora assolutamente insufficienti. La storia delle mafie viene raccontata come “storia separata” dalle vicende fondamentali che hanno caratterizzato la nazione italiana, quasi come storia a parte, come “altra” storia, che si affianca a quella ufficiale e non si mischia mai con essa. Ma in questo modo, se sono inconciliabili e incompatibili le due storie, diventa pressoché impossibile spiegarci il loro successo plurisecolare. D’altra parte, se le mafie sono solo espressione della storia criminale del nostro paese, come spiegarci il fatto che diversi presidenti del Consiglio dei ministri sono stati chiamati in causa per rapporti con esse (ultimi Andreotti e Berlusconi), oppure che alcuni di essi non hanno avuto problemi a dichiarare pubblicamente il valore dei mafiosi come uomini d’onore (Vittorio Emanuele Orlando che disse in un comizio: «Se per mafia, infatti, si intende il senso dell’onore portato fino all’esagerazione, l’insofferenza contro ogni prepotenza e sopraffazione, portata sino al parossismo, la generosità che fronteggia il forte ma indulge al debole, la fedeltà alle amicizie, più forte di tutto, anche della morte; se per mafia s’intendono questi sentimenti, e questi atteggiamenti, sia pure con i loro eccessi, allora in tal senso si tratta di contrassegni individuali dell’anima siciliana, e mafioso mi dichiaro io e sono fiero di esserlo») o addirittura hanno inneggiato alla loro lealtà (Berlusconi a proposito del mafioso Mangano custode e stalliere nelle sue ville)? E se addirittura un ministro della Repubblica, Pietro Lunardi, ha potuto tranquillamente affermare che «con mafia e camorra bisogna convivere e i problemi della criminalità ognuno li risolve come vuole»; se diversi ministri degli Interni (cioè coloro che più di altri dovevano garantire la collettività dal condizionamento delle mafie) in particolare Giovanni Nicotera, Mario Scelba e Antonio Gava sono stati accusati (uno di essi processato) per rapporti con le mafie; se alcuni capi della polizia (Vicari e Parisi) o rappresentanti degli apparati di sicurezza sono stati al centro di trattative con camorristi e mafiosi e in almeno tre casi ciò è stato riconosciuto in sentenze della magistratura (uccisione del bandito Giuliano, liberazione dell’assessore regionale della Campania Ciro Cirillo, trattativa con la mafia siciliana durante la stagione delle stragi di inizio anni Novanta); se l’inventore di un partito (Forza Italia) che ha dominato la scena politica per venti anni ed è stato il principale collaboratore di Berlusconi (parliamo di Marcello Dell’Utri) è stato condannato per concorso esterno con Cosa nostra; se è stato ampiamente dimostrato che diversi ministri ed esponenti del parlamento avevano relazioni stabili con capi-mafia in diverse epoche storiche; se non c’è al mondo nessun parlamento con il più alto numero di inquisiti e condannati per rapporti con le mafie; se non esiste al mondo nessun sistema di autonomie locali con il più alto numero di condannati per relazioni con le mafie tra sindaci, assessori e consiglieri comunali e regionali, fossero essi meridionali, settentrionali o dell’Italia centrale; se le mafie hanno intrecciato rapporti con il sistema economico e finanziario nazionale a partire dallo scandalo della Banca Romana di fine Ottocento, al punto che alcuni banchieri, nei cui istituti di credito passavano i narcodollari delle mafie, sono stati assassinati (Calvi, Sindona) e lo stesso è successo per chi stava controllando i conti di una delle banche coinvolte (Ambrosoli); se le relazioni economiche e finanziarie delle mafie hanno interessato perfino la banca vaticana (Ior); se Andreotti ha potuto definire nel 1973 il banchiere-mafioso Sindona come il «salvatore della lira»; se il più altolocato magistrato italiano dell’epoca, Giuseppe Guido Lo Schiavo, fece un incredibile elogio funebre al capo della mafia Calogero Vizzini con queste parole: «Si è detto che la mafia disprezza polizia e magistratura: è una inesattezza. La mafia ha sempre rispettato la magistratura, la Giustizia, e si è inchinata alle sue sentenze e non ha ostacolato l’opera del giudice. Nella persecuzione ai banditi ed ai fuorilegge ha affiancato addirittura le forze dell’ordine!»; allora come si fa a relegare il fenomeno mafioso solo nel campo del crimine? Sarebbe necessario, alla luce di tutto ciò, riportare il fenomeno mafioso dentro la storia politica dell’Italia e delle sue classi dirigenti, non solo meridionali. È questo il punto dolente dell’analisi storica. Non c’è nessun’altra nazione dell’occidente in cui il crimine organizzato ha occupato un così ampio spazio politico.

La forza militare

Da questi fatti, è chiaro che non si può spiegare la lunga durata delle mafie semplicemente con la forza militare che esse esercitano sui territori che controllano. È questa una ipotesi che non regge storicamente. I pirati e i briganti erano molto più organizzati sul piano militare dei mafiosi. I pirati avevano a disposizione navi attrezzate con cannoni ed erano armati fino ai denti. I briganti, soprattutto quelli post-risorgimentali, erano organizzati come eserciti regolari e affrontavano i militari italiani in scontri armati, in vere e proprie battaglie campali. Le mafie non sono eserciti che occupano militarmente un territorio con le armi, anche se hanno a loro disposizione migliaia di affiliati che le sanno ben usare. Se si schierassero in un campo di battaglia i 10/20mila mafiosi armati e dall’altra parte si schierasse una divisione dell’esercito italiano o di una delle forze di polizia, la battaglia non durerebbe che pochissimo tempo. No, decisamente no: la durata plurisecolare delle mafie non è dovuta alla loro forza militare.

Il consenso popolare

E allora? Le mafie debbono forse il loro successo storico al consenso popolare? È questa una spiegazione molto gettonata, in particolare per individuare nella mentalità dei meridionale un oggettivo sostegno al loro radicamento. Ma neanche questa spiegazione regge. I briganti, ad esempio, hanno goduto di un consenso popolare di gran lunga più vasto di quello dei mafiosi (di cui sono ancora oggi testimonianza canzoni, aneddoti, racconti, favole) eppure sono finiti. Così come i pirati, a cui la letteratura e la cinematografia hanno riservato un ruolo importante come ispiratori di miti. E non dimentichiamo che anche in città come Londra un bandito poteva avere un consenso straordinario come ci racconta Daniel Defoe a proposito di Jack Sheppard, un ladruncolo divenuto celebre perché, prima di essere impiccato a 22 anni davanti a una grande folla commossa, era evaso ben quattro volte dal carcere. Di lui raccontò anche un altro scrittore, Ainswort, in un libro intitolato Jack Sheppard, il bandito più amato di Londra. E per arrivare ai nostri giorni, anche un noto criminale dei sobborghi di Manchester ha avuto migliaia di persone presenti al suo funerale, come racconta Federico Varese in Vita di mafia. Il consenso popolare è importante, ma non basta da solo a spiegarci il successo plurisecolare delle mafie. Sono scomparse nel corso della storia forme criminali che hanno avuto un consenso più ampio e diffuso delle mafie. Il consenso a un criminale non ne fa di per sé un mafioso.

In realtà, il mafioso ha avuto il grande successo storico per una ragione molto particolare: mentre tutti i criminali predatori si contrapponevano ai poteri costituiti e si dovevano nascondere per svolgere la loro attività delinquenziale, il mafioso è un criminale che si relazione con coloro che dovrebbero contrastarlo. Cioè è il primo criminale nella storia che ha rapporti permanentemente con i rappresentanti del potere costituito e non si contrappone a essi, sia sul piano politico, sia su quello economico che su quello sociale, come invece avveniva per i banditi, i briganti e i pirati. Questa la spiegazione. La storia del successo delle mafie, direbbe Sciascia, è in fondo «una storia semplice». È la storia di un potere che si accumula con la violenza privata ma che si espande per le relazioni con chi esercita il potere ufficiale. Le mafie sono criminalità di potere che vengono legittimate dal fornire servizi, in determinate circostanze, a rappresentanti del potere istituzionale.

Violenza e cooperazione

In genere nelle società moderne la violenza privata viene associata a scontro, contrapposizione, guerra. Quella mafiosa non è violenza di contrapposizione o di scontro con lo stato, non è violenza antistatuale e antisistema, non è esterna alla società e alle istituzioni, né è esercitata solo con le armi in mano; è, invece, interna allo stato e alle sue istituzioni. È questa l’assoluta novità delle mafie rispetto a tutte le criminalità precedenti. E una volta raggiunto il potere con la violenza, non lo esercitano in conflitto con gli altri che quel potere già ce l’hanno ma in cooperazione, salvo arrivare alla contrapposizione solo quando non vengono stabilmente accettate tra i poteri riconosciuti. E quando si arriva alla contrapposizione, essa non si manifesta come un redde rationem definitivo di un mondo contro l’altro, ma solo come lotta contro alcuni delle istituzioni che non accettano di condividere con esse il potere. Per questi motivi per più di un secolo i mafiosi non si dovevano nascondere nei boschi o in altri luoghi irraggiungibili per sottrarsi alla repressione, ma vivevano inseriti pienamente dentro la società e a contatto anche fisico con coloro che avrebbero dovuti reprimerli.

La storia delle mafie, dunque, è nei fatti storia di relazioni, storia dei rapporti che parte della società e delle istituzioni hanno stabilito, nel tempo, con i fenomeni criminali e viceversa. Senza queste relazioni, senza questi rapporti le mafie non sarebbero tali, non sarebbero durate tanto a lungo, non peserebbero come un macigno sul passato, sul presente e sul futuro dell’Italia. Al punto, che nonostante il grande sforzo repressivo degli ultimi decenni e i più raffinati strumenti di indagine, stiamo ancora a indicarle come sicure protagoniste del post-pandemia.

Confrontando i delitti tra Italia e l’Europa la differenza consiste proprio in questo: che in Italia il delitto si iscrive dentro una strategia del potere, in altre parti risponde quasi sempre solo a un obiettivo specificamente delinquenziale.

La storia delle mafie è in sostanza il disvelamento della funzione debole dello stato italiano nell’impatto con un territorio che avrebbe avuto bisogno, per liberarsi delle forme violente prestatuali, di un diverso radicamento dello stato e della rottura radicale con quelle classi dirigenti alleate delle mafie. Perciò, la storia delle mafie mette a nudo la qualità storica dell’agire politico, a Roma e a Milano, e non solo a Palermo, a Napoli o a Reggio Calabria. Ieri come oggi.

Il più grande insuccesso

Forse, dunque, a ragione, le mafie possono essere considerate come il più grande insuccesso della storia unitaria dell’Italia.

E quando esse si sono spostate al nord non hanno trovato particolari ostacoli né politici né economici. La nazionalizzazione delle mafie, il superamento «della linea delle palme» come scriveva Sciascia, è avvenuto in pochissimo tempo e senza grandi ostacoli in luoghi di grande partecipazione politica e di mentalità non certo “meridionale”. Le mafie sono oggi un problema nazionale, non più o non soltanto meridionale. Un esito di questo tipo non era affatto scontato e inevitabile. Perciò non si può più essere tolleranti con il sistema clientelare e corruttivo: le mafie arrivano più facilmente e più velocemente dove trovano le porte spalancate dalla clientela e dalla corruzione. È un problema di classi dirigenti, non di mentalità popolare.

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