Nel commentare la decisione della Corte di cassazione di Parigi che ha negato l'estradizione di dieci ex terroristi italiani, il ministro della Giustizia Carlo Nordio ha detto: «L'Italia ha fatto tutto quanto in suo potere perché fosse rimosso l'ostacolo politico che per decenni ha impedito alla magistratura francese di valutare le nostre richieste». Ma è davvero così? O meglio: è sempre stato così nell'arco di una vicenda quarantennale che ha avvelenato i rapporti tra i due Paesi?

Se le colpe d'Oltralpe sono note e hanno giustamente suscitato da noi una forte indignazione, meno reclamizzate ma non minori sono le falsità, le ipocrisie, le complicità segrete, le invasioni di campo tra politica e giustizia da parte di Roma.

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Tutto ha origine dalla cosiddetta “dottrina Mitterrand” del 1985 che, se ha un padre nell' allora presidente della Repubblica francese, ha almeno uno zio nell'allora presidente del Consiglio Bettino Craxi. Entrambi socialisti. I due si incontrarono il 23 febbraio 1985 all'Eliseo quando il tema dei circa 350 rifugiati reduci dagli anni di piombo era già spinoso. Poco prima, il primo febbraio, Francois Mitterrand aveva pronunciato il famoso discorso al Palais des Sports di Rennes con il quale annunciava la protezione francese a tutti coloro che non si erano macchiati di reati di sangue. Stando alla ricostruzione di alcuni storici e di testimoni oculari dell'epoca, tra cui soprattutto Gilles Martinet, ambasciatore a Roma e intimo del suo presidente, fu proprio Craxi a spingere perché gli italiani non fossero estradati (ne fa cenno pure nel suo libro di memorie L’observateur engagé): voleva evitare seccature con il rientro di personaggi scomodi, tra i quali colui che lo preoccupava più di tutti, il professore padovano Toni Negri, teorico del marxismo operaista e fondatore di Autonomia operaia. Mitterrand dal canto suo voleva reiterare la tradizione del suo paese come terra d'asilo, salvo per chi aveva ucciso.

Le cose andarono diversamente. L'interpretazione estensiva del suo pensiero portarono alla protezione universale senza distinzioni. Anche a causa di intellettuali engagé come Bernard-Henry Lévy che si batterono in difesa del rifugiati (per noi latitanti), dipingendo l'Italia come una sorta di dittatura sudamericana che perseguitava gli oppositori attraverso leggi speciali indegne dello stato di diritto. Emblematico, tra gli altri, il caso di Cesare Battisti, difeso in modo tetragono perché ritenuto innocente e infine reo confesso dopo la conclusione annosa della sua fuga.

Una parola per i parenti delle vittime

Da Roma nessuna particolare pressione mentre fioccavano i no alla restituzione dei condannati per omicidio, se si eccettua un timido tentativo di Ciriaco De Mita nel suo anno e mezzo di permanenza a palazzo Chigi. Silenzio assoluto fino al cambio di millennio con il ritorno al potere di Silvio Berlusconi mentre dall'altro lato delle Alpi era regnante Jacques Chirac, due esponenti della destra. I rispettivi ministri della Giustizia Roberto Castelli e Dominique Perben cercarono di pensionare l'entente cordiale di quasi vent'anni prima. Dopo la consegna di Paolo Persichetti, ex Brigate rosse, e l'autorizzazione alla restituzione di Cesare Battisti (poi però aiutato dai servizi segreti francesi a fuggire in Brasile), tutto si arenò di nuovo. E qui è d'obbligo chiamare in causa l'inefficienza del sistema giudiziario italiano. Con due esempi. Per Giorgio Pietrostefani, condannato definitivamente per l'omicidio del commissario Luigi Calabresi nel 2000, non fu mai chiesta l'estradizione per un arco di tempo lungo vent'anni. Analogo il caso di Narciso Manenti, che nel 1979 uccise un appuntato dei carabinieri a Bergamo. Quando nel 2016 il poliziotto Mauro Porta fu incaricato dal procuratore Walter Mapelli di riaprire il suo fascicolo, lo trovò letteralmente impolverato. La carta più recente contenuta risaliva al 1987, la notifica che la richiesta di estradizione era stata respinta. Mancavano addirittura alcune pagine della sentenza italiana.

È stato così gioco facile per la Cassazione francese, seguendo una giurisprudenza costante salvo rarissime eccezioni, invocare anche nel suo ultimo pronunciamento di martedì scorso gli articoli 6 e 8 della Convenzione europea sui diritti dell'uomo. Tradotto dal burocratese: sono trascorsi decenni, gli imputati sono persone diverse, hanno moglie e figli, non hanno più commesso delitti, sono anziani, l'Italia vuole vendetta e non giustizia.

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Sarebbe potuta andare diversamente se in fondo, all'origine della dottrina Mitterrand, non ci fosse stato un interesse italiano. I francesi hanno fatto un uso politico della giustizia ma altrettanto si può sostenere degli italiani. E quanto ai nostri ritardi, si sa che siamo campioni soprattutto in questo specifico settore. Anche questo andrebbe detto ai parenti delle vittime per i quali è ora difficile immaginare qualunque risarcimento sancito da un'aula di tribunale. Resta ciò che ha sottolineato Mario Calabresi, il figlio del commissario: «Non si sono mai ravveduti». Ecco per questo non c'è bisogno di una sentenza. Se sono davvero cambiati, basta una parola.

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