Sciogliere il Parlamento prima della loro naturale scadenza è sempre stato, negli ultimi trent’anni, una extrema ratio cui il Capo dello Stato ricorre quando sia impossibile formare un nuovo governo con una qualsiasi maggioranza in Parlamento.

La scelta del Presidente Mattarella di sciogliere le Camere dopo il voto di mercoledì in Senato, senza verificare attraverso le consultazioni la possibilità di formare un nuovo governo, rappresenta, quindi, una importante novità.

Dal 1948 ad oggi sono stati numerosi gli scioglimenti anticipati. Alcuni (come quelli del 1963, del 1992 e del 2001) erano puramente tecnici, ovvero non motivati da ragioni politiche o di contrasto tra maggioranza e governo.

Altri, avevano la funzione di evitare lo svolgimento di referendum popolari come nel 1972 quello sul divorzio, nel 1976 quello sull’aborto, nel 1987 sul nucleare e la giustizia. In questo periodo, al di là del dettato costituzionale, sono i partiti, di fatto, a decidere la durata del governo e del Parlamento e a ottenere lo scioglimento del Parlamento da parte del Capo dello Stato.

Controvoglia

Lo scioglimento del 1983, sotto la presidenza Pertini, è probabilmente il primo ad essere pubblicamente motivato e a mostrare un presidente contrarissimo, fino all’ultimo, a sciogliere, tanto da spingerlo a dichiarare ai giornalisti che “ho già dovuto sciogliere una volta il Parlamento e per me è stato un trauma, non vorrei scioglierlo ancora una volta”.

A partire da questo episodio, il ruolo del Capo dello Stato cambia e diviene parte attiva nella risoluzione della crisi politica. La “dottrina” Pertini diventa prassi e impone al Presidente di fare di tutto prima di sciogliere le Camere.

E’ il periodo in cui nascono gli “incarichi esplorativi”, generalmente affidati al Presidente del Senato per verificare la possibilità di formare nuovi governi, o in cui il Capo dello Stato prova esso stesso a creare nuove maggioranze incaricando leader di partiti minoritari nella maggioranza.

Solo dopo aver verificato l’impossibilità di formare una qualsiasi maggioranza disposta a sostenere un qualsiasi governo, registrando il “blocco del sistema”, derivato appunto dall’impossibilità di formare un qualsiasi nuovo governo, il Presidente scioglie le Camere.

L’eccezione a questa regola risale al 1994: il presidente Scalfaro scioglie le Camere pur essendoci  una maggioranza di governo, e lo fa per tre motivi: i referendum elettorali dell’aprile del 1993 avevano “sanzionato” la legge elettorale proporzionale, l’esito delle elezioni amministrative del 1992 avevano evidenziato un divario molto sensibile fra le forze rappresentate oggi in Parlamento e la volontà popolare e, infine, Tangentopoli aveva delegittimato i rappresentanti politici.

E’ a questo precedente che si appella Berlusconi nel dicembre 1994 quando, dopo l’uscita della Lega dal suo primo governo, presenta le dimissioni: ma Scalfaro non lo accontenta e rivendica la “dottrina Pertini”.

La situazione si ripropone nel 1998 con la crisi del primo governo Prodi: il capo dello Stato verifica che in Parlamento una maggioranza c’è e così prende forma il primo governo D’Alema  e poi, applicando la stessa prassi, il governo Amato.

Su questi precedenti fa leva anche il presidente Giorgio Napolitano nel 2007, con la crisi del secondo governo Prodi. Napolitano non vuole sciogliere le Camere e le prova tutte, compreso l’incarico esplorativo a Franco Marini, presidente del Senato, ma ha in testa un programma politico, vuole una maggioranza che cambi la legge elettorale e non la trova.

Il presidente Mattarella, fino ad oggi, ha sempre dichiarato di considerare lo scioglimento un atto estremo, da usare solo nell’impossibilità di formare un governo: ma dopo le prime dimissioni di Draghi, Mattarella aveva in qualche modo fatto sapere che avrebbe sciolto se non ci fossero state le condizioni di tenere in vita il governo.

Chissà se avviso preventivo ha agevolato la caduta del governo o se molti dei senatori che si sono astenuti confidavano in un ritorno alla “dottrina Pertini” da parte di Mattarella.

Sta di fatto che l’epilogo ora è questo ed è la conferma di quanto, sotto Mattarella, il ruolo del capo dello Stato sia divenuto (fortunatamente sempre più) quello di mediatore e risolutore delle crisi politiche.

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