Quando Massimo Galli e Alberto Zangrillo passano alle vie brevi, con il primo che dà dell'irresponsabile al secondo e il medico di Berlusconi che risponde ricordando «la militanza sessantottina» all'infettivologo del Sacco, è chiaro a tutti che s’è saltato il fosso. E che la scienza, traumatizzata dall'arrivo del Covid 19, rischia di tracimare definitivamente nell'opinione.

Lo sconcerto del pubblico, alla ricerca affannosa di guide autorevoli di fronte all’ignoto, è comprensibile. Ma lo scontro tra opposte fazioni virologiche, con annessa tifoseria di giornalisti sovranisti (contro Galli) e progressisti (ovviamente anti Zangrillo) segnala pure che la forza dell'ideologia resta, anche di fronte a un virus crudele, un fattore insopprimibile. Nulla, d'altronde, è più politico della gestione di un'epidemia che rivoluziona strutture sociali, economiche e stili di vita, e le diverse reazioni alla catastrofe – come ha notato il sociologo Fabrizio Battistelli – si posizionano ancora sulla vecchia direttrice destra/sinistra.

Ecco: Zangrillo e Galli incarnano perfettamente le due diverse risposte alla sfida pandemica. L'amico personale di Silvio Berlusconi e Flavio Briatore, specialista di un gruppo sanitario privato, è un libertario, e da mesi inconsapevole sponsor del laissez faire che da tradizione non ammette vincoli, è allergico ai lacciuoli della burocrazia, e a ogni intervento invasivo dello Stato che ponga limiti alla sovrana libertà dell'individuo.

Post reaganiano, Zangrillo ha attaccato il governo giallo-rosso e il comitato tecnico scientifico rei di «terrorizzare il paese», e ha avuto in antipatia perfino le mascherine, figlie – per un pezzo della destra - di un eccesso di prevenzione del potere. Una cautela dietro cui si nasconderebbe, infida, addirittura la volontà delle élite di controllare il popolo: non fu Giorgia Meloni, a giugno, ha dire che «l'app Immuni non l’ho scaricata: è l’ennesimo strumento in mano a chi vuole istituire un controllo modello Grande Fratello»?

Zangrillo è stato ospite d'onore del convegno organizzato da Vittorio Sbarbi e dall'indagato Armando Siri in Senato. Lì i riduzionisti del Covid spiegavano che un esecutivo che obbliga i cittadini a usare dispositivi di sicurezza è «un governo criminale, e anticostituzionale». Per molti, è così. Dietro il ribellismo anticomunista di Zangrillo c'è un mondo vasto. È quello dei ristoratori, delle partite iva, dei commercianti oggi in ginocchio, che chiedono (giustamente) indennizzi allo stato, a cui sovente non hanno pagato i tributi. È il popolo che applaude leader come Salvini, Trump, Bolsonaro o Boris Johnson, quest’ultimo propugnatore dell'immunità di gregge e di «un amore per la libertà», disse, che confligge per forza di cose «con il rispetto delle regole anti Covid». «Laissez faire, laizzez passer», aggiungeva l'economista liberale Vincent de Gournaye, senza immaginare che i suoi epigoni, oltre alla libera circolazione delle merci, proponessero di favorire anche quella di batteri e patogeni.

Galli, ex sessantottino, professore in un ospedale pubblico, è la nemesi di Zangrillo. Antileghista, è la personificazione della reazione di stampo keynesiano alla pandemia. La sinistra più che al singolo punta al bene della collettività, e naturalmente alla sua protezione economica e sanitaria. Se il liberista ha in odio lo Stato che lo tratta da imbelle («non ce n'è di coviddi», è però il mantra di qualche adulto), i progressisti credono che il welfare pubblico sia la panacea per ogni cittadino, che va salvato finanche da se stesso. A volte a costo di costrizioni che ne limitino l'arbitrio: non stupisce che i medici “sessantottini” siano considerati accaniti allarmisti, né che ammoniscano sulla prevenzione, sul distanziamento maniacale, su mascherine per tutti. Contrari all’autogestione, e a favore di regole imposte dall'alto. Unica arma reale per una difesa efficace del bene comune.

L'ideologia che permea le fazioni contrapposte non dovrebbe però mai avere il sopravvento sulle evidenze. Nè piegare le curve epidemiologiche a secondo del pregiudizio. Ma nella crisi sanitaria più grave degli ultimi 98 anni persino gli scienziati, come visto, non sono compatti davanti al caos. Nemmeno va dimenticato che alla divisione manichea appena descritta sfuggono anomalie significative: la socialdemocratica Svezia ha preferito (a costo di molti morti in più di Norvegia e Danimarca) la libertà a costrizioni, e la sinistra antagonista e intellettuali progressisti come il filosofo Giorgio Agamben hanno protestato contro «l'emergenza immotivata», e uno «stato di eccezione» costruito ad arte con i Dpcm, che avrebbero avuto come obiettivo finale quello di far accettare passivamente la sospensione dei diritti democratici.

Detto questo, davanti alla catastrofe il terzismo è da aborrire. E a otto mesi dall'inizio della pandemia si può segnare una riga tra chi ha sbagliato molto e chi assai meno: Zangrillo annunciò che «il virus è clinicamente morto», Galli nelle stesse ore vaticinava una «seconda ondata», e chiedeva ai decisori politiche per difendere i «più fragili» e, di conseguenza, l’economia tutta. La lezione di Keynes, in qualche caso, resta utile.

 

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