Mentre inganno l’attesa per imbarcarmi, cammino lungo le vetrate dell’aeroporto di Fiumicino e una luce scintillante cattura la mia attenzione. Un raggio di sole rimbalza sull’azzurro Airbus della compagnia di bandiera e vedo una scritta, un nome. L’aereo fa parte della speciale linea dedicata ai grandi campioni dello sport. Il nome è quello di Klaus Dibiasi, la leggenda olimpica dei tuffi. L’abbinamento mi colpisce, mi risulta particolarmente suggestivo ed efficace: la brillante bellezza del mezzo rimanda esattamente alla perfezione di Klaus, che sapeva domare la gravità con sontuosa eleganza. Potenza e leggerezza, padronanza del corpo e controllo emotivo: l’angelo biondo, così lo chiamavano, dipingeva acrobazie in aria ed entrava in acqua senza muoverla, con una pennellata silenziosa. Se gli altri facevano i tuffi, lui faceva la poesia del tuffo.

Il suo amico rivale Giorgio Cagnotto (papà di Tania), meno romantico e più pop-rock, disse: «I tuffi prima di lui erano un’altra cosa. Klaus li ha cambiati, come i Beatles hanno cambiato la musica». Dibiasi è stato l’unico atleta al mondo capace di vincere tre volte la medaglia d’oro nella specialità della piattaforma da 10 metri, in tre edizioni consecutive dei Giochi olimpici. L’apoteosi giunse a fine carriera ai Giochi di Montreal nel 1976, perché insieme all’oro, il terzo della carriera, arrivarono un punteggio record, tuttora imbattuto, e l’onore di essere alfiere della delegazione italiana.

Klaus e Jannik

Da quando Jannik Sinner è diventato un’icona mi capita spesso di pensare al momento in cui il riflesso della luce sull’Airbus A320neo mi ha ricordato Klaus come simbolo dell’italianità. Ogni portabandiera olimpico viene scelto dal Paese di appartenenza in virtù dell’onore e della fierezza derivanti dagli eccezionali risultati atletici, ma anche per la storia personale. E se l’atleta Klaus era la migliore scelta possibile per il valore agonistico, anche l’uomo Klaus aveva qualcosa in più da regalare all’Italia: le sue origini.

Forte, serio, semplice, bello e di madrelingua tedesca, sfilando col tricolore in mano Dibiasi portò i tuffi nel cuore di tutti, introdusse l’Alto Adige nelle conoscenze geopolitiche degli italiani e catalizzò l’attenzione del mondo su un riuscito modello di convivenza tra gruppi etnici diversi.

Oggi, a 48 anni di distanza, Il fenomeno Sinner evidenzia la necessità di un breve ripasso.

Gli altoatesini sono italiani di madrelingua tedesca, come Klaus, come Jannik. Possono essere di madrelingua tedesca anche italiani con nome italiano, come Tania Cagnotto, la più grande tuffatrice azzurra. Gli altoatesini sono italiani di madrelingua italiana come me o come Simone Giannelli, stella mondiale del volley. Italiani sono anche gli altoatesini di madrelingua ladina come Maria Canins, pioniera del ciclismo, o Isolde Kostner, campionessa di sci alpino.

L’italianizzazione forzata

Dopo la Prima guerra mondiale il Trentino-Alto Adige (ora diviso in due province autonome distinte) passò dall’Impero austroungarico al Regno d’Italia. Gli abitanti del territorio, prevalentemente germanofoni, durante il periodo fascista subirono l’italianizzazione forzata. La lingua tedesca e il suo insegnamento vennero vietati. I nomi di persone e di luoghi vennero goffamente trasformati in italiano. Per esempio Jannik Sinner sarebbe diventato Giovanni Sinnero. La mia amica e campionessa olimpica di slittino Gerda Weissensteiner sarebbe stata italianizzata in Gerardina Sassobianco.

Nel 1946, a guerra conclusa, l’accordo De Gasperi-Gruber riconobbe uno statuto di autonomia speciale da cui nacque un modello per la convivenza interetnica, osservato ed elevato a riferimento di successo in tutto il mondo; insieme all’’articolo 6 della Costituzione (“La Repubblica tutela con apposite norme le minoranze linguistiche”) rappresenta un impegno concreto, reale di pluralismo ed uguaglianza.

Il linguaggio dello sport

Quando Dibiasi, a Montreal, ha sfilato introducendo la delegazione italiana, il linguaggio universale dello sport ha lanciato al mondo due messaggi potenti: il primo, di pace, per affermare che la comunione tra popoli è possibile anche là dove le tensioni sembrano irrisolvibili. Il secondo, di tolleranza, per ricordare che la diversità è ricchezza e che ognuno di noi è un essere umano che sarà sempre molto di più delle etichette che gli verranno incollate addosso nel corso della vita. In Alto Adige (o Südtirol) lo sport è stato ed è un alleato dell’integrazione e della crescita personale e sociale.

La pubblica amministrazione investe in impianti, la popolazione risponde e i talenti pure. Il numero di medaglie olimpiche in relazione alla popolazione è straordinariamente alto. Da Dibiasi a oggi molti atleti sudtirolesi hanno vinto in discipline diverse: alcuni sono stati scelti come alfieri dei Giochi invernali. Ora il fenomeno Sinner ha travolto l’Italia e con essa il mondo intero, ma Jannik non ha bisogno di diventare portabandiera alle Olimpiadi per lanciare messaggi globali.

Che cos’è l’identità

Siamo entrati in un’altra epoca: dire da dove veniamo è sempre più difficile e probabilmente nemmeno troppo interessante. È dove siamo nati che ci definisce o piuttosto il luogo dove decidiamo di vivere? Siamo figli delle origini dei nostri genitori o ci radichiamo nei principi con cui diamo senso alla nostra vita? Il nuovo astro mondiale del tennis ci sollecita queste domande e ci suggerisce alcune risposte. Non vi è dubbio che il fenomeno sportivo e la potenza della sua universalità siano stati il primo grande contributo all’accezione positiva del concetto di globalizzazione, anzi, si potrebbe dire che lo sport sia il primo, riuscito esempio di società globale.

Dai totalitarismi alla Guerra fredda, chi ha strumentalizzato lo sport per scopi nazionalistici ha sempre perso. Le bandiere nello sport stanno tutte all’interno dei cinque cerchi intrecciati: ci dicono da dove veniamo e ci ricordano dove dobbiamo andare. Mettere un vessillo su un’impresa sportiva non significa tracciare un confine, ma costituisce uno sprone per spingere il genere umano verso orizzonti più ampi.

Con Klaus Dibiasi portabandiera è iniziato un percorso che ha condotto il modello altoatesino nel futuro, attraverso lo sport. E ora che Jannik Sinner, a ragione, si definisce cosmopolita, raccoglie questa eredità e la rilancia verso le sfide di una modernità sempre più liquida. Non lo conosco personalmente, ma riconosco dietro il ciuffo rosso e quelle pose imbarazzate da “star suo malgrado” l’impegno, la serietà, la responsabilità del campione consapevole di essere un esempio.

Ecco, forse proprio il richiamo alla responsabilità individuale è il tratto di lui che piace di più: il richiamo a essere liberi di scegliere. Chissà, forse è un caso o forse no che a Bolzano abbiano risolto la presenza ingombrante del monumento alla vittoria, simbolo fascista, apponendovi la frase di Hannah Arendt: «Nessuno ha il diritto di obbedire». L’Airbus “Klaus Dibiasi” rulla sulla pista, decolla, ed è come se il suo messaggio riprendesse a volare sulle ali di Sinner e di tutti noi che in quella terra di confine siamo nati e, forse, abbiamo capito più in fretta che i limiti vanno oltrepassati insieme.

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