Le testimonianze riportate da Nello Trocchia nella sua inchiesta sono drammatiche. Ci dicono che a Santa Maria Capua Vetere, nei giorni successivi alla rivolta violenta del 6 aprile, qualcosa di grave è effettivamente accaduto. Se non bastassero le parole dei detenuti, ci sono le immagini delle telecamere di sorveglianza all’interno del carcere. Altra violenza, dunque, e questa volta violenza di stato. Non per sedare la rivolta, ma quando la calma nel carcere era ampiamente tornata. Circa 400 agenti, secondo quanto riportato all’epoca dei fatti dall’associazione Antigone, in tenuta antisommossa, col volto coperto da caschi e guanti alle mani, impegnati a portare a termine un’azione ritorsiva nei confronti di alcuni detenuti del reparto “Nilo”.

Sin da subito, abbiamo visto all’opera un meccanismo vecchio e collaudato: negare le denunce, alzare una barriera difensiva fatta di silenzio, sostenere che esista una “lobby dell’antipolizia”, chiamare a raccolta pezzi di politica “amica”, sempre pronti a prendere le parti delle forze di polizia a prescindere dal loro operato.

Qualcosa però ha iniziato a contrastare quel meccanismo che per anni ha favorito l’impunità.

Già il 14 aprile l’associazione Antigone aveva depositato un esposto, alla procura della Repubblica di Santa Maria Capua Vetere, contro agenti di polizia penitenziaria in servizio nel carcere locale per tortura e percosse così come nei confronti di medici operanti nello stesso istituto per omissione di referto, falso e favoreggiamento.

A giugno, la procura della cittadina campana ha iscritto nel registro degli indagati 44 agenti della polizia penitenziaria e vedremo come le cose andranno avanti sotto il profilo giudiziario.

Qualcosa si può fare

Ora, rispetto al passato, lo strumento che può contribuire a individuare e a sanzionare in modo adeguato le responsabilità, c’è: il bistrattato reato di tortura, introdotto nell’ordinamento italiano tre anni e mezzo fa dopo quasi tre decenni di vani tentativi.

Ci sono i casi di tortura “ordinaria”, in cui i soggetti condannati erano privati cittadini e non pubblici ufficiali, commessi per lo più da minorenni o adulti molto giovani: ricordo, tra gli altri, i maltrattamenti inflitti in un garage di Varese, le sevizie inflitte da una badante a un novantenne di Alghero e la nota storia delle sofferenze inflitte a un uomo con disagio psichico a Manduria.

C’è poi la storica condanna emessa il 28 maggio dal tribunale di Messina per torture commesse in Libia, nel campo di detenzione per migranti di Zawiya, da persone successivamente arrivate sul territorio italiano: scosse elettriche, violenze sessuali, mancanza di assistenza medica, di acqua e di cibo. I tre condannati sono un guineano e due egiziani, facenti capo ad Abdurahman al Milad (quel “Bija” di cui la stampa italiana rivelò una controversa visita ufficiale nel nostro paese).

E, soprattutto, ci sono i non pochi casi che riguardano proprio le torture “aggravate” in quando commesse da pubblici ufficiali nei confronti di detenuti.

I principali sono relativi alle carceri “Le Vallette” di Torino, San Gimignano, Ferrara e, per l’appunto, Santa Maria Capua Vetere. A ciò aggiungiamo che, in una conferenza stampa del 4 settembre 2019, il Garante nazionale per le persone private della libertà aveva dichiarato di avere segnalato una serie di casi sospetti ad altre procure. Non sapremo come andranno a finire questi procedimenti. Ma di sicuro, almeno, non sarà la prescrizione a perpetuare l’impunità.

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