Se si provano a mettere in fila le recenti dichiarazioni su natalità, lavoro e immigrazione di esponenti di punta del governo, a cominciare dalla presidente del Consiglio, quello che se ne trae sono poche idee ma confuse. Gli obiettivi ideologici sono molto evidenti: sostenere la famiglia per aumentare la natalità, scoraggiare l’immigrazione per difendere la “nazione”.

Molto meno chiaro è come possano combinarsi con l’esigenza pragmatica – altrettanto manifesta – di sostenere il mercato e l’impresa. Giorgia Meloni ha parlato di un «problema di tenuta del sistema economico e sociale» dovuto alla denatalità, da risolvere non tanto con il contributo dei migranti, ma soprattutto con «la grande riserva inutilizzata che è il lavoro femminile» e l’incentivazione alle famiglie per «mettere al mondo dei figli». Che l’Italia abbia un problema di sotto-occupazione femminile è ovviamente vero.

Ma perché mai il lavoro delle donne dovrebbe essere messo in competizione con quello delle persone migranti? Non è forse noto, al governo, che più della metà della popolazione straniera in Italia è composta da donne, e che sono in gran parte donne migranti a fornire servizi di welfare sostitutivo, che sostengono – tra l’altro – il lavoro delle donne “native”? Questa «riserva» resta «inutilizzata» non perché nessuno abbia mai pensato di usarla, ma perché le donne con figli, in questo paese, sono fortemente penalizzate nell’ingresso o la permanenza nel mercato del lavoro dall’assenza di infrastrutture sociali di cura. E se non lavorano, servono a poco gli sgravi fiscali promessi dal governo per voce del ministro dell’Economia Giorgetti.

Ad ora, mentre si sprecano gli elogi della famiglia e della “madre”, di misure per un welfare universalistico e un’occupazione di qualità non si vede grande traccia, e intanto si aboliscono i sostegni al reddito. Quand’anche, poi, le donne “native” si facessero convincere a fare i figli per la patria, per scongiurare il pericolo della «sostituzione etnica» evocato da Francesco Lollobrigida, non offrirebbero alcuna risposta, nell’immediato, alla carenza di manodopera in settori in sofferenza. Questo è ben chiaro anche al ministro dell’Agricoltura, che infatti appena poche settimane fa dichiarava la necessità di alcune centinaia di migliaia di lavoratori stranieri da far entrare legalmente.

Ma intanto il decreto Cutro in fase di conversione mira a rendere la vita difficile (irregolare) a chi ha un permesso per protezione speciale e potrebbe convertirlo in lavoro. Una misura illogica, con una valenza puramente identitaria. Il punto, infine, sembra essere proprio questo: una destra bifronte, metà “sovranista” e metà liberista, produce vorticosamente proclami identitari, mentre taglia la spesa sociale e si sforza di assicurare manodopera a buon mercato alle imprese. Per questo entra in continua contraddizione con sé stessa.

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