La Rai vive e prospera quasi sempre in ragione delle polemiche che l’accompagnano. O meglio, vive e prospera se quelle polemiche richiamano una profondità, un’intensità, un significato tali da rivelare il volto del paese e il valore delle sue contese. Per anni e anni viale Mazzini è stato appunto l’epicentro della lotta tra i partiti, il luogo dove la politica dava il peggio ma anche il meglio – io dico soprattutto il meglio – di sé, dove tutelava i suoi interessi ma si cimentava anche con le opinioni degli altri, dove cercava di imporre la sua disciplina ma doveva prendere atto dei limiti oltre cui quel tentativo di disciplina era destinato a imbattersi in certe sue irregolarità e disubbidienze. Era questa la Rai dei partiti. Lottizzata, si denunciava polemicamente. Eppure affidata a professionisti che non erano così corrivi, né così servili, né così organici verso il mondo che pure li aveva espressi. La storia di quegli anni, letta con un briciolo di cura, rivela appunto una gran quantità di irregolarità, o almeno una certa dialettica, lungo la linea che avrebbe dovuto collegare i signori della politica del tempo e i “loro” giornalisti, manager, dirigenti.

La vecchia dirigenza 

Il fatto è che quella linea non era poi così regolare, né così affilata, né così inesorabile come la si sarebbe poi raccontata. È vero, i partiti sceglievano, negoziavano gli equilibri, nominavano questo e quello, a volte pretendevano di dettar legge sui programmi del momento. Ma poi quelle scelte e quelle pretese dovevano fare i conti con i professionisti di quelle stagioni. I quali non erano affatto così zelanti come all’epoca piaceva pensare.

Si tenga conto che molte volte la scelta cadeva su persone di grande qualità. Tra i democristiani, Fanfani puntò su Bernabei, Moro su Guerzoni, De Mita su Agnes. E negli altri partiti si scommetteva altrettanto su professionisti di pari valore che avrebbero potuto brillantemente vincere un concorso pubblico se quello fosse stato il criterio. In quel labirinto di nomi e di storie si potevano rintracciare una gran quantità di figure capaci di dire più di un “no” a quanti un po’ impropriamente venivano descritti come i loro datori di lavoro.

Gente come Fabiano Fabiani, riottoso a ogni ordine di scuderia. O come Sergio Silva che non faceva parte di nessuna delle scuderie del tempo. Per non dire di tanti, tantissimi altri.

Insomma, quella non fu una storia di supina ubbidienza. Ma proprio la dialettica che attraversava il campo politico e ne ridisegnava in continuazione i confini rendeva alla fine piuttosto irregolare e indisciplinata quella lottizzazione tanto vituperata allora e negli anni seguenti.

Il caso della Piovra

Foto AGF

Si potrebbero fare una gran quantità di esempi. Mi limito ai miei paraggi, che conosco meglio. Quando la prima rete produsse e mandò in onda la Piovra, metà (abbondante) della Dc se ne offese e scandalizzò. Qualcuno lo disse e qualcuno invocò perfino la censura. Non accadde. E quando Agnes mise al bando per qualche tempo Pippo Baudo, che pure era – è – un professionista coi fiocchi, il suo amico De Mita gli disse che non era d’accordo. Senza che quel bando venisse revocato per parecchio tempo.

Di queste storie se ne potrebbero raccontare un’infinità. Erano il segno di una dialettica che non era mai del tutto liberale, ma neppure così autoritaria e padronale come la si è voluta descrivere. Il fatto è, o meglio era, che la Rai di quegli anni partecipava così ampiamente alla disputa pubblica da finire per animarla a sua volta con una prudente eppure tenace rivendicazione di autonomia professionale. Si dirà che non era abbastanza. Ma era pur sempre qualcosa.

(E del resto, non è proprio che dalle altre parti le cose fossero poi così diverse. Si citava sempre, all’epoca, la Bbc come esempio di quel che si sarebbe dovuti essere. E veniva evocato lo spirito di quella mitica figura, sir John Reith, che l’aveva lungamente diretta con (apparente) totale autonomia dai voleri della politica. Eppure quello stesso Reith era stato tra i più antipatizzanti verso Churchill fino a poco prima della sua nomina a primo ministro. E sotto la sua giurisdizione la tv pubblica inglese non aveva degnato il futuro premier neppure della minima attenzione. Cosa della quale l’interessato si sarebbe lungamente lamentato. Come a dire, insomma, che spesso l’erba del vicino è meno verde di come la si vuol vedere. E che forse il praticello di viale Mazzini non era così arido come tante volte ci è capitato di considerare tra di noi).  

Con tutto ciò, non si vuole certo fare – fuori tempo massimo per giunta – un elogio postumo della lottizzazione. Ma solo cercare di smascherare alcune delle ipocrisie che hanno accompagnato il grido di dolore di quanti in quella pratica hanno visto solo l’attitudine predatoria dei partiti che allora andavano per la maggiore.

Certo, poi ognuno tirava l’acqua al suo mulino. E col passare degli anni molti margini di autonomia si erano assottigliati mentre i partiti occupavano via via spazi sempre più ampi. Fino a pretendere di governare troppi dettagli, e ad aspettarsi fin troppi vantaggi da quella loro indebita occupazione dell’azienda.

E mano a mano che il sistema politico entrava in crisi, la sua illusione di trarre vantaggio da una comunicazione televisiva più ubbidiente, compiacente, diciamo pure asservita, si rivelava come un’ulteriore prova del declino che si annunciava. Quasi che l’eccesso delle sue pretese fosse anche il segno del venir meno delle sue forze.

Tant’è. Quella stagione infine si è chiusa, e dopo di allora la Rai ha conosciuto i più svariati modelli di governance, le più diverse progettualità editoriali, i più immaginifici racconti di sé. Molti vincoli politici (non tutti) si sono allentati, e l’azienda ha potuto riposizionarsi con una apparente libertà di cui prima non aveva goduto.

Ci sono stati consigli di amministrazione, presidenti, direttori generali e poi amministratori delegati delle più varie specie, e i condizionamenti del sistema politico si sono via via rinserrati nei recinti del mugugno oppure delle velleità oppure ancora delle piccolezze. Senza grandi conseguenze, a dire il vero.

Lottizzazione nascosta

E però, una volta spezzato quel vecchio nesso, così regolare, così minuziosamente codificato, tra la Rai e il sistema politico, viene da dire che, pur con qualche eccezione, le cose non sono affatto migliorate. E che di questa maggiore libertà degli uni, e della minore influenza degli altri, non è stato fatto un uso così proficuo.

La lottizzazione di una volta, triturata e minimizzata, è diventata a quel punto come polvere sotto il tappeto. Ma quel progressivo allontanamento tra viale Mazzini e i palazzi del potere, o più semplicemente le sedi dei partiti, ha finito per essere più il segno di un’occasione perduta che non quello di una libertà conquistata.

Finita la lottizzazione organica, che pretendeva di essere scientifica, figlia com’era della proporzionale e di un robusto sistema di partiti, si è dato inizio a una lottizzazione per dir così più nascosta, spezzettata, praticata in tono minore e vissuta come un condizionamento surrettizio. Così, di quel condizionamento è sopravvissuta la parte forse meno nobile.   

Ora infatti la Rai sembra faticare molto più che in passato nel suo tentativo di animare il discorso pubblico. Un po’ perché quel discorso si è impoverito nell’arena politica. Un po’ perché i partiti si sono ridotti a chiedere vantaggi senza più offrire idee.

E un po’, ancora, perché il timore di evocare vecchie dipendenze ha spinto gli amministratori che si sono succeduti a viale Mazzini a tenersi così lontani dal confronto (su sé stessi, sul paese) da non riuscire più a incidere in alcun modo sulla nostra agenda civile e forse anche sul sentire comune dei telespettatori.

Magari ora si scelgono figure iconiche a cui lasciar dire, letteralmente, “di tutto, di più”, come recitava un vecchio claim della Rai di allora. Ma a parte il fatto che la gran parte di quelle icone non sembrano davvero pervase da un vigore profetico né tantomeno illuminate da un’aura di santità, se poi li si lascia parlare e straparlare senza mai tracciare un percorso di spiegazione, di contesto, di cornice, non si capisce davvero quale libertà ci si sia guadagnati recidendo i legami politici di una volta per restare poi avvinti ai profeti del momento.

Il paradosso

Il fatto è che la Rai avrebbe bisogno per paradosso di più politica, e non di meno. Avrebbe bisogno di affacciarsi sulla soglia del discorso pubblico senza troppe remore, e magari di scegliere una linea editoriale che non fosse tanto asettica.

Perché un conto è il pluralismo, un conto è la doverosa ospitalità concessa a tutti i punti di vista, un conto è l’equanimità che si richiede a un servizio pubblico, e un altro conto, tutt’altro conto, è rinunciare in partenza a indagare la sfera della politica.

Come se l’unica via d’uscita dalla lottizzazione fosse una sorta di prudente e qualche volta ipocrita estraneità. Posizionandosi infine fuori dalla controversia ma anche ai margini del dibattito che corre nel paese e tra i partiti.

E invece servirebbe riannodare qualche legame tra la nostra principale azienda culturale e quel che resta del nostro sistema politico. Non in modo vessatorio, né seguendo il filo di vecchi percorsi. Ma avendo contezza, da una parte e dall’altra, che la Rai non potrà mai essere del tutto spogliata dal suo connotato politico. E che la politica a sua volta non può ridursi a mendicare qualche secondo in video per se stessa dopo aver deposto ai piedi del cavallo di viale Mazzini ogni ambizione più degna.

      

© Riproduzione riservata