Joe Biden ha condotto una campagna molto più dimessa e silente di quanto gli sia stato imposto dalle restrizioni per la pandemia. Negli ultimi giorni ha fatto soltanto una breve comparsa nella contesissima Pennsylvania, si è avventurato in Georgia e ha passato molto tempo nell’assai meno conteso Delaware, il suo stato, prima di fare rotta verso la Florida, che deve necessariamente conquistare per arrivare alla maggioranza dei grandi elettori.

I più pessimisti fra i democratici dicono già che, in caso di sconfitta, la scelta di stare per lunghi tratti acquattato dietro ai cespugli invece che nel centro dell’arena gli verrà addebitata con gli interessi. Un po’ come è successo quattro anni fa a Hillary Clinton, che s’era dimenticata del Wisconsin mentre Donald Trump passava al setaccio la rust belt contea per contea.

La strategia della cautela di Biden risponde innanzitutto a un calcolo elettorale. I sondaggi, per quel che valgono, al momento gli danno ragione, indicandolo in modo quasi unanime in vantaggio nella manciata di stati dove si decidono le elezioni. Ma la campagna “a scomparsa” dello sfidante offre anche indicazioni più profonde su una visione diffusa all’interno del mondo democratico.

La prevalenza del silenzio sul rumore indica che Biden considera Trump un meccanismo che si autodistrugge. Il candidato ha lasciato il campo alla confusione mentale e alla bulimia verbale dell’avversario, convinto che sarebbe finito per inciampare nelle sue stesse contraddizioni, autosabotandosi e infine squalificandosi agli occhi di un elettorato già sfiancato dalla prima stagione del reality show messo in scena alla Casa Bianca.

Affermare non sottrarre

È un’impostazione forse tatticamente scaltra ma politicamente fragile. Si sorregge sull’idea che basti indicare le debolezze altrui per costruire una leadership affidabile. Nella storia recente i presidenti americani si sono imposti grazie alla visione che hanno articolato, non alla semplice capacità di diagnosticare la pochezza dell’avversario. La presidenza si conquista per asserzione, non per sottrazione. John Fitzgerald Kennedy ha affascinato l’America con l’idea della «nuova frontiera», Ronald Reagan con l’immagine evangelica della città splendente sulla collina, Bill Clinton ha promesso un nuovo rilancio della prosperità americana, Barack Obama ha fatto breccia nell’immaginario globale incarnando la «speranza» e il «cambiamento» di cui parlava nei suoi discorsi.

Anche i presidenti meno amati sono arrivati alla Casa Bianca presentando una visione positiva. Perfino Richard Nixon, condannato dalla storia per quella particolare mistura di corruzione e paranoia che ha portato alla conclusione anticipata della sua presidenza, aveva conquistato gli elettori presentando una certa visione politica dell’America, che peraltro era a tinte centriste e moderate, cosa che allora ha scatenato le critiche della parte conservatrice del partito. Anche Trump quattro anni fa ha conquistato la presidenza con l’assertività. La sua era l’affermazione di principi nativisti e identitari impalatabili, ma era pur sempre un’affermazione. Seguendo la logica della prudenza e della discrezione, Biden ha tacitamente detto che quella regola non vale nelle circostanze di oggi, che impongono invece un igienico distacco. Da politico navigato qual è, Biden sa che non può scendere sul terreno della polemica da trivio nel quale Trump è un fuoriclasse, ma nel continuo sottrarsi alle zampate dell’avversario ha rischiato di sottrarsi anche al momento decisivo dell’elaborazione di un progetto da presentare agli americani. Come sarà l’America di Biden non è chiarissimo, si sa solo che sarà l’opposto di quella di Trump.

Il fatto che in questa fotografia politica il negativo sia più riconoscibile del positivo è la conseguenza del modo in cui il mondo democratico ha concepito Trump dall’inizio della sua ascesa: un’anomalia, un bug nel sistema, un brutto sogno che prima o poi finisce. È stato l’errore che i democratici hanno commesso quattro anni fa, quando pensavano che il successo politico di un antieroe dell’avanspettacolo non fosse che la sbandata passeggera di un popolo confuso e arrabbiato.

Un serio partito di opposizione non può limitarsi a dire che una volta archiviato l’autocrate con i capelli arancioni finito per errore alla Casa Bianca la storia riprenderà il suo corso. Deve offrire una visione alternativa. Le questioni suscitate o intercettate dal trumpismo non scompariranno, nemmeno se martedì Biden vincerà a valanga.

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