Che il vento tra Pechino e l’Europa fosse cambiato si era capito già da un pezzo. Il pronunciamento congiunto del marzo 2019 da parte della Commissione Europea e del Servizio Europeo per l’Azione Esterna secondo cui la Cina doveva essere considerata come un “rivale sistemico” non aveva lasciato spazio ad alcun dubbio.

La questione che aveva determinato questa presa di posizione da parte dell’Europa – con toni insolitamente poco conciliatori – era relativa alla crescente impazienza nei circoli dell’Unione a proposito della resistenza cinese all’apertura dei propri mercati ad aziende europee. Tale postura aveva condotto alla finalizzazione di un meccanismo di controllo sugli investimenti cinesi che segnò l’inizio di un approccio più coerente dal lato europeo, dato che esso conferiva la possibilità alla Commissione non solo di richiedere informazioni ma anche di fornire un’opinione non vincolante su specifici investimenti verso un paese membro.

Nei mesi successivi, poi, nonostante il simbolico successo ottenuto dal presidente Xi Jinping con la ratifica della dichiarazione di intenti con il governo italiano, la diffidenza europea nei confronti del progetto della Nuova Via della Seta si è trasformata in apprensione nei confronti delle reali intenzioni di Pechino, con particolare riferimento ai progetti previsti nei paesi balcanici. 

Negli ultimi tempi la tensione non si è stemperata: la poco trasparente gestione della pandemia da parte cinese e, soprattutto, la fallimentare prova fornita dalla “diplomazia delle mascherine” – con la distribuzione di materiale sanitario di origine cinese poco affidabile – ha allontanato ulteriormente le parti.

La reazione cinese

A inizio settembre è arrivato in Europa il ministro degli esteri cinese, Wang Yi. In tutti i paesi visitati (Italia, Paesi Bassi, Norvegia, Francia e Germania) ha evocato  la solidità del rapporto sino-europeo e la necessità di multilateralismo, in antitesi al clima da Guerra fredda alimentato dal presidente americano Donald Trump.

La strategia della leadership cinese è proprio quella di prevenire un allineamento tra Stati Uniti ed Europa in nome del dualismo tra “mondo libero” e “Cina comunista” riportato in auge dal segretario di stato Mike Pompeo.

Uno degli obiettivi dell’amministrazione Trump, quindi, è proprio quello di tenere sotto pressione la Cina, provando ad inserirsi tra le linee di cooperazione dell’Europa, frammentandola.

Xi Jinping ha un colloquio telematico, lunedì, con la cancelliera tedesca Angela Merkel, la presidente della Commissione Europea Ursula Von der Leyen, il presidente del Consiglio Charles Michel e il commissario per gli Affari Esteri, Josep Borrell.

I temi di cui si è discusso sono noti – dal cambiamento climatico alle relazioni economiche e commerciali al rispetto dei diritti umani (con riferimenti espliciti alla situazione di Hong Kong e delle minoranze uigure) – e le risposte di Xi sono risultate scontate: il presidente cinese ha rimarcato ancora la coesistenza pacifica, il multilateralismo, la cooperazione ed il dialogo.

Ma le parole di Xi cominciano a risultare vuote alle orecchie degli europei, dato che alle promesse non ha fatto seguito sinora alcuna azione concreta che dimostri la volontà di aderire alle regole da cui dipende l’attuale sistema internazionale: mercati aperti, consenso sulle norme internazionali e rispetto dei diritti umani. Su questi fronti le due parti sembrano essere ancora molto distanti. 

È praticamente impossibile che la Cina decida nel breve periodo di attuare tutta quella serie di riforme strutturali in ambito economico necessarie a soddisfare le richieste europee, specialmente in tempo di pandemia. Tuttavia, senza alcun progresso sull’accordo sugli investimenti e sul cambiamento climatico l’atteggiamento europeo confronti di Pechino non può che spostarsi verso una più serrata competizione e rivalità.

La questione del rispetto dei diritti umani ha giocato un ruolo preminente nel corso dell’incontro, ma resta da vedere quanto la Cina sia “sensibile” ai richiami europei. Questi incerti passi in avanti da un lato lasciano uno spiraglio di collaborazione aperto, ma dall’altro non modificano la traiettoria di una interazione che continua a peggiorare giorno dopo giorno.

Antonio Fiori è  professore di Scienze politiche all'Università di Bologna e alla Korea University di Seoul. E’ un esperto di relazioni internazionali e Asia. 

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