Caro presidente Conte,
sin da quando sedevo in parlamento – i deputati del M5s di allora glielo possono testimoniare – fui tra i pochi Pd a cercare un dialogo con i rappresentanti del Movimento. Sia perché intuivo che, nonostante i loro vistosi limiti e i moduli espressivi talvolta urticanti, essi parlamentarizzassero un disagio esteso, soprattutto tra le nuove generazioni, con il quale era giusto e persino conveniente interloquire.

Sia perché ero convinto che Matteo Renzi, allora regnante, facendo del M5s l’avversario sistemico, avrebbe portato il Pd alla disfatta del 2018 (come poi puntualmente avvenne). Non era difficile prevederlo: mentre spirava impetuoso il vento dell’antipolitica fu suicida concepire e rappresentare il Pd come partito dell’establishment e varare una legge elettorale – il Rosatellum – che, per il dopo elezioni, chiaramente scommetteva sull’asse Pd-FI. Fu allora che il M5s raggiunse il 32 per cento.

Penso che fu un errore, dopo le elezioni del 2018, non siglare una intesa tra Pd e M5s; largamente positivo è il mio giudizio sul secondo governo da lei presieduto imperniato appunto sull’asse Pd-M5s. Basti considerare la gestione del Covid e l’acquisizione del Pnrr.

Così come ho apprezzato il contributo da lei personalmente fornito al processo di maturazione politica del Movimento, portandolo oltre la fase affidata alla leadership carismatica, “descamisada” e imprevedibile di Beppe Grillo. Con la decisiva svolta del sostegno alla “maggioranza Ursula” in Europa. A fronte della minaccia, da non sottovalutare, rappresentata dalle destre nostrane, penso che il tanto irriso campo largo sia un dovere e una necessità.

Le armi a Kiev

Al contrario dei più, pur non minimizzando la portata della questione, non considero dirimente la differenza di posizione sulla fornitura delle armi all’Ucraina. Mi rifiuto di pensare che la discriminante circa i grandi indirizzi di politica estera tutta si possa risolvere nel sì o no alle armi a Kiev.

Penso che, con riguardo all’ancoraggio alle nostre storiche alleanze, in tema di atlantismo ed europeismo, ciò che conta e che qualifica è il “modo” di starci. Non ottuso, non servile; con dignità e giusta autonomia. Curiosamente neglette dai sovranisti. Va dunque confutata la tesi secondo la quale l’alternativa alle destre al governo non sarebbe in grado di mettere a punto un comune indirizzo di politica estera.

La scelta di campo

Non mi convince invece la sua ambiguità/reticenza sulla scelta di campo, il sofisma lessicale con il quale lei usa distinguere artificiosamente tra “sinistra” e cifra “progressista”. Comprendo le ragioni di una fisiologica competizione, ma penso che esse debbano essere temperate e accompagnate da parole e comportamenti che trasmettano l’idea della cordiale disponibilità a una cooperazione. Già ora e in prospettiva. Con la convinzione che essa sia possibile e positivamente cercandola.

Ha ragione Romano Prodi: in assenza di tale percepibile e percepita postura le destre possono dormire sonni tranquilli e neppure si pongono le precondizioni di un’alternativa. Ovvero l’incipit di un significativo mutamento negli orientamenti della pubblica opinione. Tanto più se si enuncia la tesi – come lei ha fatto, sempre per amor di polemica con il “governismo” del Pd – che ci si acconcia volentieri a stare all’opposizione.

Di più: penso che la tensione unitaria tra gli attori del campo progressista sia apprezzata dai suoi elettori e che essa possa essere premiata anche elettoralmente; che in definitiva – non è un paradosso – Pd e M5s debbano praticare una competizione emulativa in una sorta di gara a chi si mostra più aperto e generoso nello spirito unitario.

Non me ne voglia, ma, al riguardo, Elly Schlein, con il suo rifiuto di polemizzare ed esponendosi consapevolmente all’accusa di remissività, si mostra più matura. Come si conviene ai fratelli o sorelle maggiori. Anche così ci si accredita per la leadership. La cura quasi ossessiva di marcare i distinguo semmai attesta una minorità. Non una forza ma una debolezza.

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