Malgrado gufi e malocchio la manifestazione per l’Europa proposta per il 15 marzo da Michele Serra potrebbe diventare il debutto in Italia di un sentimento fino a ieri timido, inespresso, prezioso: il patriottismo europeo. Basterebbe questo per convincere a parteciparvi chi esita temendo di ritrovarsi in una piazza affollata di contraddizioni e malintesi. Furono contraddittori, due secoli fa, i movimenti risorgimentali che si opposero agli imperi: sia concesso essere contraddittoria anche a una Giovane Europa all’esordio.

Un euroscettico, l’ex presidente ceco Vaclav Klaus, attribuisce all’europeismo la capacità, a suo dire un difetto, di funzionare come «conglomerato di idee» che spesso confliggono; e aggiunge che gli europeisti pensano in cento modi diversi, ma se gli tocchi l’europeismo fanno immediatamente fronte comune.

Questo sembra appunto lo spirito che rianima l’europeismo italiano. Babele di linguaggi politici difformi, che però s’intendono tra loro quanto basta per contrastare l’aggressività trumpiana contro l’Europa, comincia finalmente a liberarsi di due pesi che gli negavano consapevolezza e impeto: l’accidia e il cinismo. L’accidia di chi ancora una volta ha deciso che non ne vale la pena, che, Unione europea o Stati Uniti, sempre di capitalismo “bellicista” si tratta, che Trump è comunque meglio del guerrafondaio Zelensky, che insomma “nulla di nuovo sotto al sole”. Il cinismo di chi consiglia di restare a capo chino, di rassegnarsi ai rapporti di forza, allo strapotere americano, all’inconsistenza della Ue, alla mediocrità che sarebbe il destino dell’Europa attuale, magari traendone i modesti vantaggi offerti dal rifiutare rischi e responsabilità.

Soluzioni concrete

Il futuro dirà se questo vento forte che Trump ha liberato rianimerà la politica italiana, povera com’è di ideali, e la spingerà a misurarsi con un metodo che non le è familiare, trovare soluzioni concrete sacrificando agli ideali le convenienze spicce dei partiti, delle correnti, dei singoli. Le questioni che decideranno l’avvenire dell’europeismo non si prestano a soluzioni magiche.

Innanzitutto la difesa: dell’Europa e dell’Ucraina. Al momento Kiev non è in grado di resistere se gli americani le negassero qualsiasi tipo di aiuto militare, ragione per la quale Zelensky pare ormai disponibile a sottostare al ricatto di Trump sull’estrazione di minerali critici.

A sua volta l’Europa avrebbe problemi a difendere non solo l’Ucraina, ma anche il suo fianco orientale dalle attenzioni di Putin senza l’aiuto degli Stati Uniti. Secondo stime citate dal New York Times, le occorrerebbe un decennio per rendersi indipendente dall’alta tecnologia americana in settori decisivi. Valutazioni probabilmente più realistiche calcolano un tempo assai minore, purché gli europei coordinino le industrie belliche nazionali e costituiscano un comando unificato, cioè una strategia comune, cioè un’unica politica estera: se insomma decidano finalmente di federarsi. E questo procedere a passi rapidi verso la federazione dovrebbe essere l’orizzonte della manifestazione del 15.

Nell’immediato resta il dilemma se versare o no una tangente a Trump per ottenere la protezione americana, almeno finché sarà necessaria. Nella sua vaghezza, il programma ReArm Europe proposto da Ursula von der Leyen (ne ha scritto Francesca De Benedetti su queste pagine) non esclude affatto che gli europei acquistino armi made in Usa, per i propri eserciti o per quello ucraino. La Ue potrebbe trovarsi nella situazione paradossale per la quale da una parte proclama l’intenzione di rendersi indipendente dagli Stati Uniti e dall’altra si rende ancor più dipendente dalla tecnologia bellica americana (e con gli acquisti riequilibra l’interscambio per placare Trump).

Il problema non è soltanto tecnico. Parte dell’Europa preferisce considerare l’Occidente un progetto sospeso, non revocato. Confida che Trump potrebbe trovarsi in difficoltà già nel 2027, dopo le elezioni del mid-term; e comunque non durerà più di quattro anni, il tempo in cui imperò Caligola prima di essere scannato da quelli che in precedenza lo glorificavano. Una volta uscito di scena lui e la mandria dei suoi fidi, elevati da Trump al rango di ministri così come Caligola nominò senatore il suo cavallo Incitatus, l’incubo sarà finito.

Questo wishful thinking omette che il presidente americano sta disfacendo lo stato di diritto liberale, la globalizzazione e il quadro delle alleanze a una velocità tale da produrre mutazioni irrevocabili nel paesaggio ideologico e geopolitico del pianeta. Già adesso “Occidente” è definizione assai dubbia. Vi restiamo aggrappati semplicemente perché sentiamo amica e vicina quella parte d’America che cerca di contrastare Trump.

Realismo neanderthaliano

Ma il presidente degli Stati Uniti non sa che farsene di quel che gli europei intendevano per “Occidente” fino a un mese fa, si trattasse di una comunità di ideali, di un’alleanza strategica o della “civiltà cristiana” cara ai moderati. Nel suo realismo neanderthaliano gli occidentali sono per lui soltanto tribù da predare (la Groenlandia, pezzi di Canada di cui ora Washington vuole negoziare la sovranità), e la nostra Unione europea un avversario infido che vuole «fottere» gli Stati Uniti.

Tutto questo comincia a essere chiaro perfino in Italia, dove i governi sono per tradizione inclini all’inferiority complex verso qualsiasi presidente americano, fosse pure una disprezzabile canaglia. L’ultra atlantismo comincia a sbandare. Tre giorni fa è accaduto qualcosa che non andrebbe sottovalutato: i ministri degli Esteri di Italia, Germania, Gran Bretagna e Francia hanno di fatto bocciato il piano Trump-Netanyahu per “trasferire” altrove gran parte della popolazione di Gaza. Preferiscono, giudicandola “realistica”, la soluzione proposta della Lega araba, già rifiutata da israeliani e americani e approvata dall’Autorità palestinese (i gazawi restino nella Striscia, gli israeliani ne escano). Tra l’Europa e gli Stati Uniti, in quel caso Roma ha scelto l’Europa.

Ma Israele non rinuncia alla “pulizia etnica” di Gaza e, secondo il Times of Israel, sta minacciando l’Egitto se non aprirà le frontiere all’esodo dei palestinesi. La grande mischia mediorientale è appena agli inizi. E il vilissimo silenzio con cui l’Europa ha assistito alla carneficina nella Striscia non autorizza un eccessivo ottimismo: riuscirebbe a mantenersi unita e coerente ai propri valori se l’intero Medio Oriente saltasse in aria, eventualità per nulla da escludere considerando il ribollire arabo e la bulimia israeliana di territori “biblici”, confortata dall’analoga bulimia trumpiana? In quel caso l’Italia resterebbe europea oppure si sfilerebbe? E se l’indipendenza dell’Ucraina fosse in pericolo accetteremmo di difenderla?

Una contrapposizione forte con l’Anti-Europa trumpiana e putiniana metterebbe a disagio parte della sinistra, ma risulterebbe destabilizzante soprattutto per la maggioranza. Per stile personale e per retaggio degli anni trascorsi a Bruxelles, Tajani mostra una sobrietà sorprendente per un politico cresciuto all’ombra di Silvio Berlusconi. Ma Salvini tuttora non dispera di diventare il nuovo “Giuseppi” di Trump e la Meloni non ha ancora rinunciato a quel ruolo di pontiere tra Ue e Washington che era la sua ambizione dichiarata.

La maggioranza confida nel “dialogo” con Washington non solo per un pragmatismo in parte ragionevole, ma anche per una difficoltà ideologica: l’europeismo non è mai stato nel dna della destra italiana, fosse pure il dna “afascista”. Ha i suoi padri nell’antifascismo dei confinati (il Manifesto di Ventotene) e degli esuli (il Libérer et Féderer di Silvio Trentin). Un passato che pareva morto e sepolto sotto la farragine con cui procedeva l’Unione europea. Finché Trump non l’ha incautamente dissepolto.

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