A leggere i giornali e i media – salvo eccezioni – sembra quasi che la grande manifestazione del 5 novembre sia stata organizzata per dirimere la leadership a sinistra, descrivere i tratti della futura coalizione o, peggio ancora, in vista del congresso del Pd. È questa una lettura tutta politicistica e provinciale che non coglie il senso di quel grande raduno. Chi è sceso in piazza ha un’inquietudine: cosa si può fare per restaurare la pace davanti al ritorno della guerra in Europa? Ai più di centomila manifestanti non interessava certo il futuro del Pd o dei rapporti Pd-M5s: interessava innanzitutto esprimere un’angoscia, un’ansia per quella grande pace sognata nei lager e nei gulag, attesa durante la Guerra fredda, intravista a Berlino alla caduta del muro e ora perduta.

Fuori dai partiti

C’era un senso profondo in quella lenta marcia di migliaia di cittadini comuni provenienti da tutta Italia e non inquadrati da forze politiche, che non può essere ridotto ad una lettura interna del quadro dei rapporti di forza parlamentari.

Esiste un’attesa, un’apprensione, una speranza e una paura che sono molto più profonde e che vanno comprese appieno, con uno sforzo culturale, sociologico o addirittura antropologico. Sappiamo che fin da marzo il 60 per cento degli italiani non ha mai sostenuto la guerra e ha sempre chiesto la pace.

Le motivazioni sono le più varie – com’era variopinta la manifestazione stessa – ma una cosa è certa: nessuno chiede la resa ma un grande sforzo negoziale. Fin dall’inizio della guerra c’è stato sconcerto per parole esclusivamente bellicistiche e per l’assenza di un impegno politico verso la trattativa.

È come se nel fondo della società, anche in maniera inconscia, ci fosse un forte anelito di pace e una sorgiva diffidenza verso l’utilizzo esclusivo dello strumento militare. Nessuno, nemmeno il più radicale (salvo forse qualche sperduto nostalgico dell’Urss), mette in discussione l’immensa colpa di Vladimir Putin.

Nessuno è equidistante. C’è però turbamento per il fatto che le leadership occidentali da otto mesi spingano soltanto sull’acceleratore militare e sostengano che non ci sia altro da fare. A parte l’azzardo nucleare, la semplice osservazione delle ultime guerre rende consapevole il grande pubblico che ciò non è vero.

Ucraini e russi già negoziano su grano, scambio di prigionieri o energia ma forse c’è chi punta a guerra lunga. I conflitti di Siria, Iraq, Libia, Yemen, le crisi mediorientali, africane, caucasiche ecc., stanno lì a dimostrare anche al più digiuno di geopolitica, che il conflitto tende a diventare permanente senza risolvere alcunché.

In altre parole esiste nel profondo della coscienza civile italiana ed europea, un’autentica repulsione delle armi come mezzo per risolvere le contese. Non si tratta di una questione di ragioni o torti da soppesare: il torto sta tutto da una parte. Si tratta di non affidare il nostro futuro alla guerra che ha già dato pessima prova di sé. 

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