Sulle riflessioni intorno alla fine dell’èra di Angela Merkel, leader di imparagonabile autorevolezza e longevità istituzionale, si è innestata una voce: l’erede di Merkel nel ruolo di guida de facto dell’Unione europea non potrà essere altri che Mario Draghi. La suggestione è stata raccolta e rilanciata con particolare zelo dalla stampa estera. Da ultimo Andreas Kluth, già direttore di Handelsblatt, ha spiegato su Bloomberg View le ragioni per cui il passaggio di consegne dell’euroleadership è naturale e quasi inevitabile. Un fatto di «necessità», direbbe Carlo Bonomi, filosofo della storia temporaneamente alla guida di Confindustria.

Per dare sostanza al ragionamento Kluth fa appello alle categorie del potere dell’antichità – potestas, auctoritas e gravitas – e passando in rassegna i leader europei in circolazione conclude rapidamente che nessuno le possiede tutte e tre in quantità sufficienti per meritare il ruolo di erede designato. Nessuno tranne uno. Solo Draghi ha la statura, la competenza, la riconoscibilità e le qualità di leadership per occupare la casella rimasta sguarnita al vertice del potere europeo.

Si tratta di una tesi molto interessante che non ha alcun fondamento nella realtà, per almeno due ragioni. La prima è che Merkel non ha mai voluto davvero essere la leader dell’Europa. È stata una cancelliera di straordinaria caratura che ha condotto la Germania in un periodo di notevole prosperità. È stata però anche un leader riluttante in un’Europa che nel frattempo è diventata sì più integrata, ma anche più disuguale e litigiosa, attraversata da una frattura profonda fra frugali virtuosi e spendaccioni inaffidabili, un continente senza una politica estera e di difesa comune che Merkel non ha fatto molto per creare, preferendo rifugiarsi come sempre sotto l’ombrello della protezione americana; nell’ora più buia dell’unione ha mostrato quel minimo grado di flessibilità necessario per evitare il tracollo, ma ci sono voluti infiniti negoziati per vincere le resistenze, un estenuante lavoro per allontanarla dalla linea rigorista di Wolfgang Schäuble e infine un sopraffino capolavoro di “forzatura” delle regole culminato con il leggendario «whatever it takes» pronunciato da Draghi.

Non è esattamente l’immagine di una leader che ha abbracciato con trasporto una vocazione che sentiva propria. Piuttosto, è stata una guida dell’Europa suo malgrado. Quindi, tornando alla questione della successione, è logicamente impossibile che Draghi possa essere l’erede di una leader che non ha mai reclamato quella posizione.

La seconda ragione per cui Draghi non può essere il successore ideale di Merkel è strutturale: Draghi è italiano. In ultima analisi, il potere di Merkel derivava dal fatto di guidare la prima potenza economica europea, il più grande creditore del continente, il solo che ha potere di veto sulle finanze dell’Eurozona, un paese con bilanci, salari, scambi commerciali, politiche industriali e livelli di produttività sconosciuti non si dica ad Atene e Lisbona, ma anche a Parigi e Roma.

Si possono scrivere – e giustamente si scriveranno – trattati raffinatissimi sulle innegabili doti personali di Merkel, ma rimane il fatto che l’origine ultima del suo potere va cercata nelle condizioni strutturali del paese che ha guidato, non in altro. Con questo non si vuole dire che chiunque al suo posto avrebbe avuto gli stessi successi, ma solo che le qualità politiche, i talenti, la competenza, l’esperienza, l’intelligenza sono in fondo una parte marginale nel complesso sistema del potere.

Potestas, auctoritas e gravitas merkeliane derivano dai fondamentali del sistema Germania, che lei ha difeso e assecondato con immenso acume politico. Sono autoevidenti le ragioni per cui nell’occasione di un passaggio epocale la figura di Draghi viene in mente come erede di una presunta successione europea. Nessuno in Europa trasmette un’autorevolezza paragonabile, e anche chi non crede desidera in fondo un salvatore, un Super Mario a cui votarsi.

Il dramma è che la personalità pur straordinaria di un leader non è l’origine del potere, che ha invece sede altrove, appunto nei dati strutturali di un paese che si impone per la capacità di produrre ricchezza e di non essere ricattato dai debiti, nella capacità di crescere, di fare sistema, di fornire stabilità, di contare nel dibattito internazionale in ragione di una forza costruita in decenni di riforme e visioni strategiche. Ecco, l’Italia non è quel paese.

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