Tra i pochi riferimenti dettagliati del primo discorso alle camere del presidente del Consiglio Mario Draghi c’è stato quello agli istituti tecnici. Ma ho l’impressione che Draghi sia stato mal interpretato. Il suo riferimento indicava come i due miliardi circa indicati dal Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) per finanziare gli istituti tecnici sarebbero stati destinati a essere sprecati nel triennio del finanziamento europeo. Era dunque una critica puntuale ai problemi di fattibilità trascurati dal Piano, anche se la sua considerazione era da riferirsi non agli Istituti tecnici ma solo agli Istituti tecnici superiori (Its) che hanno visto la luce intorno al 2010 sulla base di una norma del 1999.

Gli Its sono il risultato di sforzi progettuali di diversi soggetti (Istituti tecnici ordinari, imprese, università, soggetti locali) che hanno agito in modo cooperativo. Sono una esperienza di successo (l’80 per cento di occupazione entro un anno dal diploma, il 90 per cento in posti coerenti con lo specifico percorso scelto) ma si tratta di una realtà esigua (i diplomati intorno al 2020 erano dell’ordine dei 3.500). Di conseguenza prevedere di poter spendere miliardi in breve tempo su queste iniziative è follia.

Molti media si sono limitati a ricordare che gli Its sono ispirati dal sistema tedesco (delle Fachochschulen), ma manca una corretta prospettiva temporale. Le Fachhochschulen sono il risultato ultimo di riforme basate su un “innalzamento di livello” degli Istituti tecnici (Fachschulen), in un percorso di circa mezzo secolo. Intorno al 2015 esse avevano circa 900.000 studenti (contro 1,7 milioni di studenti universitari)  su cicli formativi ben superiori ai due anni. Un percorso analogo ha fatto la Francia a cominciare dagli Iut (Institut Universitaire de Technologie), di durata inizialmente biennale, poi estesa.

Questi processi hanno creato esperienza in tutti i soggetti coinvolti, una esperienza che in Italia è mancata, lasciando spazio ad aborti mal meditati. E ciò perché da noi è stata carente una “cultura della professionalità”, necessaria per formare i giovani sulla base di una integrazione di aspetti tecnico-informativi con addestramento pratico, aggravata dalla mancata partecipazione di imprese e parti sociali alla definizione e all’aggiornamento delle figure professionali. Questa cultura della professionalità nell’esperienza tedesca è stata “coltivata” da legislatori e parti sociali fin dai tempi di Otto von Bismarck che decise di reagire all’impoverimento di tale cultura a seguito allo scioglimento “liberale” delle gilde.

Ipotesi di lavoro

Cosa è possibile fare per compensare parzialmente in un arco di tempo breve questi vuoti di esperienza? Occorre attivare le parti sociali a livello alto, creare una rete di ricerca ulteriore rispetto a quella dei soli soggetti pubblici,. Su questo le indicazioni del Pnrr sembrano riflettere una cultura meramente salottiera. Fare riferimento alla rete di ricerca tedesca solo citando Fraunhofer (FhG, spesa 2015 di 2,1 miliardi l’anno, 24.000 occupati), e trascurando Max Plank (MPG, 83 istituti di cui 5 all’estero, 2 miliardi di spesa nel 2015, 22000 persone, 1100 visiting scientist, 291 direttori di dipartimento), Helmholtz (HFG, 3,95 miliardi nel 2015, 37.000 occupati in 18 grandi centri), Leibniz (WG, 1,64 miliardi, 18.000 occupati in 89 istituti), è solo segno di disinformazione.

18 September 2019, Saxony-Anhalt, Halle (Saale): Christian Patzig, scientist at the Fraunhofer Institute in Halle, shows a transmission electron microscope. This and other new devices are now available to scientists in a modern extension of the Fraunhofer Competence Center for Applied Electron Microscopy and Microstructure Diagnostics in Halle. With the new analytical methods, the centre is in a position to offer customers from the electronics and optical materials sectors even more precise insights into materials. The costs for the extension building with the laboratories amounted to almost 10 million euros. Photo by: Hendrik Schmidt/picture-alliance/dpa/AP Images

Si tratta del punto di arrivo di una evoluzione di oltre un secolo, che fa da premessa e da accompagnamento a quella delle Fachochschulen e del fatto di riuscire  investiva con soldi pubblici in ricerca e sviluppo circa il 3 per cento del Pil, che costituivano un terzo della spesa per investimenti in istruzione e ricerca.

Un tale risultato non va letto per l’enormità delle cifre, ma per la complessità organizzativa richiesta dalla loro utilizzazione efficace e per le implicazioni in termini di statuto sociale, fatto di percezione pubblica, riconoscimento di status degli addetti alla ricerca, loro rispetto, prestigio e regole giuridico-contrattuali) che ne costituiscono la premessa. Non possiamo imitare l’esempio tedesco, possiamo solo cercare strategie per accelerare una transizione verso i suoi punti di arrivo. I soldi sono secondari. Occorrono iniziative, non solo normative e di spesa bensì organizzative, che abbiano probabilità di “smuovere le acque” nella direzione giusta.

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