Con la bella stagione si torna a parlare di migranti. I numeri degli sbarchi negli ultimi giorni fanno temere, oltre che per la sostenibilità dell’afflusso, per l’impatto che esso può avere sulla stagione turistica. In attesa del Consiglio europeo straordinario di fine maggio, dove si affronterà il tema delle migrazioni, il 12 maggio scorso Mario Draghi ha delineato una proposta di strategia in un question time alla Camera.

Tunisia e Libia

La strategia del presidente del Consiglio si articola su tre direttrici: prioritariamente, «il contenimento della pressione migratoria nei mesi estivi con una collaborazione più intensa da Libia e Tunisia nel controllo delle frontiere». Si tratta dell’approccio che ha caratterizzato le politiche non solo italiane, ma anche europee, negli ultimi anni: evitare che i migranti partano, finanziando gli stati che possono trattenerli. È questo lo spirito che impronta, ad esempio, il memorandum tra Italia e Libia, rinnovato nel 2020. Formalmente, l’accordo è funzionale a un’attività congiunta di contrasto «all’immigrazione illegale, al traffico di esseri umani e al contrabbando: a questo fine, l’Italia fornisce supporto tecnico e tecnologico», consegnando motovedette e addestrando la Guardia costiera. Nella sostanza, l’obiettivo è – come detto – quello di evitare, avvalendosi dei libici, che i migranti arrivino sulle nostre coste. Da anni report dell’Onu e di organizzazioni umanitarie rendono noto che i migranti intercettati dalla Guardia costiera sono sottoposti a detenzioni arbitrarie in condizioni disumane, con torture e maltrattamenti. Si tratta di «indicibili orrori», come li ha definiti il segretario generale aggiunto per i Diritti umani dell’Onu. Draghi ha parlato di impegno «a promuovere le opportune iniziative bilaterali; a condurre un'azione da parte dell'Unione europea affinché le autorità libiche contrastino i traffici di armi e di esseri umani nel rispetto dei diritti umani». Sembra quasi un paradosso aspettarsi tutela dei diritti umani da parte di quella Guardia costiera che nei giorni scorsi, ad esempio, non ha esitato a sparare su un peschereccio italiano. Del resto, nel 2019 la ministra dell’Interno, Luciana Lamorgese, riferendosi a quest’ultima disse che faceva «un buon lavoro» e lo stesso Draghi qualche settimana fa in Libia ha parlato di «salvataggi». Dunque, nulla di cui stupirsi.

L’accordo di Malta

In secondo luogo, Draghi ha affermato che il governo italiano è impegnato a «esercitare una pressione intra-europea affinché si torni a una redistribuzione efficace dei migranti». Il presidente del Consiglio ha menzionato l'accordo di Malta, dicendo che «è in corso un fattivo dialogo con Francia e Germania per rivitalizzarlo» e «attivare subito un meccanismo temporaneo di emergenza per il ricollocamento». Va ricordato che si trattava di un’intesa fra stati “volenterosi” per la ripartizione dei migranti, firmata nel settembre 2019 da Francia, Germania, Italia, Finlandia e Malta. Si prevedeva, tra l’altro, che il ricollocamento riguardasse solo gli stranieri salvati in mare, dunque non quelli arrivati con sbarchi autonomi e che, se il numero degli arrivi fosse aumentato in modo sostanziale, il meccanismo sarebbe stato sospeso. Erano molti i paletti dell’accordo che ora si vuole riesumare, e ad essi si aggiunse la scarsa adesione da parte dei paesi europei. Oggi, in una situazione di pandemia e con campagne di vaccinazione di massa ancora in corso, può reputarsi che tali paesi non sarebbero maggiormente disponibili a ricevere persone provenienti da stati che non hanno le possibilità per somministrare vaccini. Oltre alla normale accoglienza, servirebbe predisporre spazi adeguati e controlli anti-Covid, anche per non vanificare i risultati di immunizzazione già raggiunti. Dunque, si dubita che la riedizione del Patto di Malta, il cui fondamento è la volontarietà, possa essere risolutivo.

I rimpatri

In terzo luogo, Draghi ha detto che «una leva necessaria di governo dei flussi migratori è costituita dall'azione di rimpatrio dei migranti che non hanno titolo a rimanere sul nostro territorio, in mancanza dei presupposti per il riconoscimento della protezione internazionale». Com’è noto, anche il tema dei rimpatri è ricorrente, con tutte le difficoltà connesse: in primis gli accordi con i paesi di provenienza dei migranti. È singolare che sia raramente richiamata la norma del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea ai sensi della quale, tra l’altro, la Ue può «concludere con i paesi terzi accordi ai fini della riammissione» di persone non in linea con le condizioni per l’entrata o la permanenza nei paesi dell’Unione. Nella stipula di accordi di rimpatrio la Ue avrebbe una forza contrattuale maggiore dei singoli stati. Va anche rammentato che i rimpatri sono uno degli elementi del Patto europeo sull’immigrazione e l’asilo, presentato nel 2020, basato sul concetto di “solidarietà flessibile volontaria”: gli stati potranno scegliere tra ricollocazioni, rimpatri sponsorizzati e supporto operativo. In altre parole, essi potranno mostrarsi “solidali” facendosi carico del ritorno del migrante nello stato da cui proviene o in altro modo, senza impegnarsi all’accoglienza.  Ma anche di accoglienza c’è bisogno, come detto.

Un’ultima considerazione. «Sull'immigrazione il governo vuole seguire una politica equilibrata efficace e umana, nessuno sarà lasciato solo in acque territoriali italiane» ha affermato Draghi. Premesso che l’obbligo di salvare vite umane, in acque territoriali proprie o altrui, è un principio fondamentale, che lo si espliciti o meno, sarà bene ricordarsi di abrogare formalmente un decreto interministeriale del 7 aprile 2020, in vigore «per l’intero periodo di durata dell’emergenza sanitaria». Con tale decreto il ministro delle Infrastrutture, di concerto con quelli degli Affari esteri, dell’Interno e della Salute, chiuse i porti italiani alle navi straniere che effettuassero salvataggi al di fuori dell’area Sar italiana. In pratica, le navi delle ong. Il provvedimento dispone che i porti italiani non siano considerati “sicuri”, causa Covid-19, e rimette al «paese di cui le unità navali battono bandiera» le «attività assistenziali e di soccorso», poiché accogliere naufraghi significherebbe «compromettere la funzionalità delle strutture nazionali (…) di assistenza e cura». Insomma, una perifrasi della formula “prima gli italiani”. Si tratta di un decreto che, per coerenza, e dato che Salvini insiste con i “porti chiusi”, sarebbe meglio cancellare.

© Riproduzione riservata