Maschio di ritorno, salutiamo l’anno della restaurazione

Alla fine, forse, l’anno passato è stato l’anno della restaurazione del maschio. Non della decostruzione, non dell’attacco delle streghe al baluardo della maschilità tradizionale, non del trionfo dell’ideologia gender, ma piuttosto dello sgocciolamento della maschilità più tossica e aggressiva dove meno ce lo si aspetta. Per esempio, in un presidente del Consiglio donna, Giorgia Meloni, che finisce l’anno recuperando, nel suo messaggio d’auguri alle forze armate italiane in missione all’estero del 22 dicembre, una delle più trite, viete, machiste formule guerrafondaie – “si vis pacem para bellum”. La stessa persona che, a giustificazione di un’assenza misteriosa di alcuni giorni, rivelatasi un viaggio di piacere a New York con la figlia, si appellava al suo ruolo di madre, ruolo naturale, che doveva prevalere sui doveri ufficiali della sua carica. «Calpestare il patriarcato»: il museo del futuro che disvela il presente Contro la decostruzione È stato l’anno della foto di Trump, Starmer, Macron e Zelensky, la foto della consorteria maschile dei volenterosi. Eravamo più o meno all’inizio della sequela di tentativi di trovare una pace nei due scenari di guerra, tutti a base di accordi commerciali mascherati da pace, di interventi risolutori dell’unico potente rimasto, del vecchio maschio che risolve tutto con la forza del suo prestigio e della sua autorità mascherata da autorevolezza. È stato l’anno del patriarcato negato, sfumato, dislocato: invocato giustamente per spiegarne i frutti più dolorosi (gli 81 femminicidi secondo l’Osservatorio Non Una di Meno), ma più spesso ridotto dalla maggioranza a istituto giuridico ormai desueto, a fantasma pigliatutto o ossessione delle femministe. Banu Mushtaq: «Il patriarcato è un mostro che si rigenera, esisterà finché le donne non ne prenderanno piena consapevolezza» È stato l’anno dell’addomesticamento dell’educazione sessuo-affettiva a scuola, condizionata al consenso dei genitori. È stato l’anno che si è chiuso con la rincorsa della famiglia del bosco da parte dei politici di destra, nel tentativo ridicolo di rivitalizzare il sogno esangue della famiglia tradizionale in salsa individualista e libertaria, strumentalizzando l’azione sacrosanta dei servizi sociali e dei Tribunali dei Minori. È stato l’anno in cui i contenuti deliranti della manosfera sono diventati tic di moda, catena di meme mainstream, gioco di parole e barzelletta ripetuta dal collega d’ufficio, dall’amico al bar, dal compagno di scuola. È stato l’anno delle tradwives, una rappresentazione estetizzata di un modello fantasmaticamente tradizionale di casalinga e madre di famiglia, con un’estetica che rischia di essere camp senza volerlo. È stato l’anno di Jeffrey Epstein, in cui un giro gigantesco di prostituzione, basato sullo sfruttamento e sull’oggettificazione sistematici di donne alla mercé di maschi potenti, ha lambito case reali, presidenti ed ex presidenti, attori e intellettuali. Il dato che accomuna questi fenomeni, pur diversi, è una specie di maschilizzazione che reagisce alla riflessione sui generi e alla spinta a decostruire la maschilità tradizionale. Se lo sport è il metro per misurare quanto il patriarcato sia ancora vivo Colonialismo della mente La risposta della maschilità tossica sta assumendo, almeno in alcuni settori, un piglio coloniale, di colonialismo della mente. Tratti stereotipi della maschilità – ricordate l’elogio del coraggio in guerra di Antonio Scurati? – vengono sdoganati e inseriti in un altro ambito, cercando di renderli irriconoscibili in superficie. Tutta la retorica del bellicismo che pervade la discussione sul riarmo dell’Europa, tutti i discorsi sulla famiglia tradizionale, il ritorno dell’oggettificazione del corpo femminile nelle pubblicità, in alcuni settori della musica e della cultura pop: tutto questo è il fondo torbido dove si tenta la riconquista del primato del maschio tradizionale. Per alcune pensatrici, le donne si possono definire come un ruolo, come persone sistematicamente subordinate (in ambito sociale, economico, legale) e marcate come bersaglio di discriminazione per via di certe loro caratteristiche corporee viste come segni del ruolo riproduttivo femminile. A queste definizioni è stato obiettato che, se fossero valide, allora donne come la regina d’Inghilterra, che sicuramente non sono subordinate, non sarebbero vere donne. Combattere il patriarcato è anche una questione di dati Forse una definizione puramente sociale di “donna” è eccessiva. Ma una definizione sociale del maschio tradizionale, invece, spiega ciò che sta avvenendo: il ruolo sociale del maschio tradizionale viene assunto anche da donne di potere, e la maschilità tradizionale diventa una modalità di esercizio del potere e di gestione delle relazioni sociali e politiche. A questo tentativo di colonizzazione reattiva dovremmo stare attenti, dovrebbero stare attenti tutti quelli a cui preme un rinnovamento non sessista e tossico della mascolinità.