«Sei una prostituta, di quelle con la sifilide», scrive una certa Michela Santini, 24 follower su Twitter: non le sono piaciuti i nostri articoli sul caso di Matteo Renzi consulente del regime saudita in piena crisi di governo. Gli insulti sono tanti, le dimostrazioni di sostegno anche. Entrambe le reazioni ci dicono qualcosa su come vengono visti i media in questa fase.

Per decenni i giornali hanno inseguito il lettore generalista, come i partiti cercavano il consenso dell’elettore mediano, quello indeciso. Invece di predicare ai già convinti, si spingevano verso il terreno contendibile, quello degli incerti.

Poi la tecnologia ha distrutto quel modello di business: la pubblicità è passata sulle piattaforme digitali, gli utenti avevano più informazione disponibile di quella che potevano consumare.

I media generalisti sono sopravvissuti con fusioni e alleanze nel tentativo di tagliare i costi e aumentare il potere di mercato per spremere i lettori rimasti.

E’ andata meglio a chi ha capito che era diventato inutile parlare a tutti senza interessare a nessuno. Più redditizio e mobilitare le nicchie: lo ha capito per primo nel 1996 Rupert Murdoch con FoxNews, rivolta soltanto a un pubblico conservatore. Il New York Times si è salvato dal declino quando ha deciso di non pubblicare “tutte le notizie che era rilevante stampare” ma soprattutto quelle che potevano rafforzare l’ostilità dei suoi lettori contro Donald Trump.

I social network hanno soltanto portato all’estremo una tendenza iniziata dai media, come argomenta il giornalista americano Matt Taibbi nell’ultimo episodio del podcast Capitalisn’t.

I giornalisti si sono adeguati: Instagram o piattaforme di newsletter a pagamento come Substack, oltre a libri e gettoni di presenza, permettono a molti giornalisti di sopravvivere bene senza bisogno di una testa di appartenenza (anche in Italia): basta individuare una nicchia precisa e gratificarla con regolarità.

Questo modello genera però soltanto opinione e più l’opinione è polarizzante, polemica, garanzia di reazioni di sostegno o indignazione, più è remunerativa. L’informazione è un’altra cosa: il giornalismo, soprattutto quello di inchiesta, ha un costo elevato e genera meno ricavi dell’opinionismo da social, ma ha un impatto sulla società molto maggiore e sicuramente positivo (ho qualche riserva sull’impatto dei predicatori social, invece).

Informarsi è più faticoso che mettere un like, però è anche una forma di partecipazione democratica sempre disponibile.

La nostra idea di democrazia si è banalizzata al punto da ridursi al momento delle elezioni, ma ci sono molti altri modi di essere cittadini. Pubblicare notizie, analisi e commenti senza l’obiettivo di aizzare la propria tifoseria è il modo in cui i media possono provare a migliorare la discussione e dunque la democrazia.

Leggere quelle notizie e valutarle in modo autonomo e, magari, meditato è un atto di cittadinanza e di partecipazione democratica che tutti possono compiere quotidianamente, con un impatto positivo sulla collettività. E perfino sulla politica.

© Riproduzione riservata