La premier, incapace di affrontare in contraddittorio la stampa libera, la vorrebbe acritico megafono; le indirizza sue frequenti epistole, c'impone in televisione lunghi monologhi. Non si fa così in una democrazia liberale, secondo il New York Times qui citato da Francesca De Benedetti.

Meloni crede di porsi sopra la mischia, ma la sua “narrazione” non può celare scelte reazionarie; un fisco regressivo, con una tassa per categoria, la lotta ai poveri (non alla povertà), l'ostilità alla concorrenza precondizione dello sviluppo, un dirigismo d'accatto su prezzi dei voli, margini bancari etc. Gianluca Passarelli, scandagliandone qui il substrato ideologico, scrive: «L'estrema destra fa l'estrema destra».

Per aprire la Cina comunista al capitalismo, Deng Xiaoping disse che non conta il colore del gatto, solo che acchiappi il topo; egli però non avrebbe mandato al governo gli eredi di Chiang Kai Shek. Noi invece ci sorbiamo il malgoverno degli eredi del fascismo.

Meloni potrebbe facilmente zittire le polemiche sulla storia sua e dei suoi irrequieti sodali, o sui legami loro col terrorismo; basterebbe parlar chiaro, come Gianfranco Fini nel 2004. Perché mai dunque svicola sul tema, parla di generico “terrorismo” sulla strage di Bologna, o dice che alle Fosse Ardeatine furono trucidati “italiani”, anziché antifascisti?

Ma rinnegare la storia che li accomuna segherebbe le loro radici; se vuol restare a capo dei suoi non può farlo. Perciò si produce in un esercizio acrobatico: restar fedele all'Idea (con la maiuscola!), ma farsi approvare perché prenderebbe i topi. Vorrebbe essere ben accetta nel concerto delle democrazie occidentali, senza staccarsi da quella storia nera che è loro mortale nemica. Se ci riesce colpisce al cuore la Repubblica, nata dal fuoco della vittoria del 1945.

Non si limitano a dire che «Benito fece anche cose buone», o a lugubri riti nibelungici; in un Paese dalla memoria labile, incapace di fare i conti col fascismo, l'attaccamento all'idea, più che metterci una pietra sopra, ne dà un giudizio positivo. Serve dunque un ripassino.

Giunto al governo con la violenza, Mussolini si consolidò col brutale assassinio di Giacomo Matteotti, che aveva difeso i contadini dalle violenze e detto alla Camera crude verità su Mussolini; crebbe reprimendo le opinioni avverse fino al massacro dei fratelli Rosselli, aggredì l'Etiopia col gas tossico e la ferocia di Rodolfo Graziani, ministro della guerra della Repubblica Sociale, venerato dai neofascisti nel dopoguerra. (anche dal cognato di Meloni, il ministro Francesco Lollobrigida, che qualche anno fa inaugurò un mausoleo in onore del gerarca, in quanto «è stato sempre un punto di riferimento»)

Il duce imitò servile il nazismo antisemita fino all'obbrobrio della Shoah, entrò in guerra, credendola breve, per «sedere da vincitore al tavolo della pace», pugnalando alle spalle la Francia a terra. Nato nella violenza civile, morì due anni dopo la disfatta militare del 1943, nel sangue della guerra civile, imposta da Hitler a Mussolini, ormai suo fantoccio.

Cosa mai affascina ancora dell'idea, unendo i tronconi della destra al governo? Negano quei fatti, o li attribuiscono ai nemici del fascismo? E che pensano delle migliaia di persone morte nella guerra civile?

Piero Ignazi, ricordando qui la presenza di Meloni ai funerali di Giuseppe Dimitri, arrestato armi in pugno, chiede, retorico, quale governante di centro-sinistra sia mai andato al funerale di terroristi “rossi”. Queste non paiano fumisterie ideologiche: il peso di quella storia, sommato agli analoghi estremismi spagnoli, polacchi, francesi o tedeschi, rischia perfino di mettere sotto scacco l'Unione Europea. Teniamo gli occhi ben aperti.

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