Non potendo rispettare le promesse elettorali su quasi tutti gli altri fronti, il governo Meloni tornerà presto a discutere di riforme istituzionali. L’idea del semipresidenzialismo che non ha mai convinto la Lega, da sempre interessata soltanto al federalismo e all’autonomia regionale, non riscontra entusiasmi nella Forza Italia post-Berlusconi ed è stata dismessa da Fratelli d’Italia. Il ministro Casellati, d’accordo con palazzo Chigi, ha rivolto la riforma verso il premierato. Questa settimana il testo della riforma dovrebbe essere discusso dal Consiglio dei ministri per poi approdare in parlamento. Si dovrebbe andare verso una elezione diretta del presidente del Consiglio, con una riforma in senso maggioritario della legge elettorale, il quale avrebbe maggiore autonomia nella scelta e nel licenziamento dei ministri. La formula che si utilizza è quella del “sindaco d’Italia”, ma al contrario del vertice cittadino in questo caso una crisi di governo dovrebbe essere affrontato con un meccanismo di sfiducia costruttiva, prima di sciogliere le camere e andare al voto.

La riforma proposta dal centrodestra, che dovrà passare il lungo iter previsto dall’articolo 138 per essere approvata, suggerisce alcune considerazioni politiche. La prima è che dopo aver polemizzato per anni sul ruolo “troppo invasivo” del presidente della Repubblica sulla formazione e i programmi del governo, i partiti di destra sembrano essersi arresi. Non ci sarà alcuna “scelta del popolo” nell’elezione del capo dello stato. Certo, con il premierato il Quirinale dovrebbe avere meno influenza soprattutto nella composizione del governo, ma è evidente che l’arma più affilata sul piano costituzionale, quella del semipresidenzialismo, è stata riposta forse per sempre. La seconda considerazione è che lo spazio di manovra, sul fronte economico e sociale, si sta stringendo molto per il governo come emerge anche dalla legge di Bilancio. Le condizioni macroeconomiche e i conflitti in corso non permettono alla maggioranza di realizzare il proprio programma come avrebbe voluto. Il servizio del debito costa troppo, le tasse non possono essere ridotte, i trucchi contabili non dureranno a lungo, c’è una politica industriale “obbligata” sul fronte di energia e materie prime, il Pnrr è rigido nella sua articolazione. Di conseguenza, i leader dei partiti della maggioranza sono costretti a guardare altrove per cercare una narrazione politica.

La riforma istituzionale costa zero e permette di sostenere che si sta lavorando per un cambiamento importante, quello della Costituzione. Anche se il governo Meloni non ci ha investito molto fino a ora, pure se la riforma è un compromesso, è oggi una necessità della maggioranza comunicare che qualcosa del programma di governo accadrà davvero.

C’è poi un terzo elemento che attiene alla legittimazione politica. I governi italiani sono sempre deboli, anche quando c’è una maggioranza omogenea, proprio perché dipendenti da partiti deboli in un paese intrappolato tra vincoli esterni e poteri di veto interni. Il rischio della disgregazione in parlamento è sempre presente, anche dopo una vittoria elettorale netta. Il premierato potrebbe mettere maggiormente a riparo i vincitori da questa sempre presente instabilità. Inoltre, esso creerebbe una diarchia coerente: il presidente della Repubblica eletto dal parlamento, il primo ministro eletto dal popolo. Ciò garantirebbe, in caso di vittoria, una legittimazione sovrana più piena di oggi a Meloni. Si tratterebbe, insomma, di un progetto di governo rafforzato che il presidente del Consiglio potrà far valere di fronte a elettori sempre alla ricerca di un leader forte. Ciò sempre che il governo duri l’intera legislatura, la riforma sia portata a termine e poi Meloni vinca il referendum costituzionale. L’ipotesi che tutto resti soltanto fumo negli occhi agli elettori non è affatto peregrina.

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