Nel 2016 James D. Vance, l'attuale vicepresidente americano, in un messaggio privato spedito a un ex compagno di stanza alla Yale Law School, tacciò Donald Trump di essere un «cinico stronzo al pari di Nixon» (a cynical asshole like Nixon) o un potenziale «Hitler americano» (American Hitler), e il 25 agosto scorso Jay R. Pritzker, governatore dell'Illinois, gli ha dato dell’«aspirante dittatore» (wannabe dictator).

Jim Sciutto, anchorman della Cnn, in un libro del 2024 (The Return of Great Powers. Russia, China, and the Next World War), ha ricordato l'ammirazione per Hitler manifestata più volte da Trump durante il suo primo mandato (gli piacevano in particolare del Führer la politica economica e la presa che aveva sui suoi generali), mentre la giornalista Tina Brown, fondatrice della piattaforma Women in the World (2010), ha definito il presidente americano un «fascista a tutto tondo» in una recente intervista rilasciata al Corriere della Sera (7 settembre 2025).

C’è anche la ciliegina sulla torta. Trump was right about everything («Trump aveva ragione su tutto»). Così si leggeva sui berretti rossi circolanti nei giorni della sua ultima campagna elettorale, a rifare il verso allo slogan che rappresentò il cuore della mitologia del Duce durante il Ventennio: «Mussolini ha sempre ragione».

Su un'America democratica ormai agonizzante, prostrata ai suoi piedi, senza neanche dover scomodare più di tanto il neofascismo connaturato al personaggio, instauratore di un regime dispotico non dissimile dal Portogallo di Salazar o dalle dittature dei caudillos dell'America Latina, Trump si erge a pomposa, opulenta e sovrumana incarnazione di un nuovo sogno americano, per il resto del mondo già divenuto un incubo, cavalcato in nome di una «guerra di liberazione» dall'immigrato e dallo straniero combattuta come per un re o un imperatore, cui inchinarsi e inginocchiarsi, infervorato di sé e dei suoi pari, votati religiosamente come lui al culto della propria personalità: «ci siamo innamorati» (we fell in love), naturalmente l’uno dell’altro, disse di Kim Jong-un, in un comizio tenuto in West Virginia (29 settembre 2018), per ricambiare le «fantastiche lettere» allora ricevute dal dittatore nordcoreano.

Alla corte di Donald Trump

Un sovrano, Donald Trump, come ogni real figura degna del suo nome, con la sua brava corte di servitori e lusingatori dei suoi autocompiacimenti e delle sue autoesaltazioni. Della trumpiana corte, genuflessa più di altri e in speranzosa attesa di sfoggiare anche lei il suo abito migliore, con gli altri cortigiani, nella Versailles che prima o poi verrà (l'annunciato progetto di una sontuosa ballroom, la sala da ballo destinata a replicarne il fasto nell’ala est della Casa Bianca, la dice già molto lunga), è parte più che integrante la nostra Giorgia Meloni.

La presidente del Consiglio arrivata a criminalizzare l'avversario, nel suo comizio a Firenze del 10 ottobre scorso, col punto di non ritorno di un'affermazione lapidaria di una gravità inaudita («La sinistra è più fondamentalista di Hamas»), è la stessa che ora, sull'onda dello squadrismo furoreggiante nella Terra di Mezzo dei social network, e di uno strombazzante giornalismo di regime, è tornata ad aizzare i suoi seguaci sulla cortigiana in cui è malauguratamente incappato Maurizio Landini.

Invitato a chiarire da Giovanni Floris, e non ce ne sarebbe stato neanche bisogno, come suggeriva il contesto, il segretario generale della Cgil aveva convenuto che quel cortigiana dovesse dar conto puramente della ossequiosa presenza di Meloni (portaborse, ha ulteriormente precisato) alla corte di Trump. Il termine non avrebbe mai potuto riferirsi, se non per un ignorante patentato o per un mistificante procacciatore di consensi, né alle mondane frequentatrici delle corti rinascimentali né, tantomeno, a modernissime escort o a ragazze compiacenti, soddisfattive dell'altrui piacere, come le berlusconine al tempo allietanti i festini del Cavalier defunto.

Un assist landinano così, per una Giorgia Meloni tornata a recitare da vittima dopo aver (ri)acceso la miccia sul genocidio israeliano nella Striscia di Gaza, era un’occasione troppo ghiotta. Il nostro presidente del Consiglio schiaffa così sui suoi profili social, dopo aver digitato su Google la parola cortigiana, la prima citazione incontrata.

Non avrà creduto ai suoi occhi quando gli si è materializzata davanti quella del più frequentato motore di ricerca messa a sua disposizione da Oxford Languages: «Donna di facili costumi, etera; eufem. prostituta».

Gli sarebbe bastato approfondire, soppesare il contesto, o aprire un dizionario cartaceo dell'uso italiano corrente, uno qualunque (immagino che almeno uno in casa ne abbia), o anche solo un dizionario italiano on line, e avrebbe scoperto una cosa incredibile: che il significato primario di cortigiana non è “prostituta” ma "dama (o donna) di corte, o legata o appartenente a una corte (principesca)”. Così nello Zingarelli, così nel Devoto-Oli, così nel Treccani on line.

Subalterno a Trump e al trumpismo, dunque, il presidente Meloni, e in quanto tale facente parte della sua corte. E se Landini fosse stato più accorto, se, secondando i suoi presidenziali desideri, si fosse riferito a Meloni al maschile, accordando grammaticalmente a presidente del Consiglio quell’appellativo galeotto, ne sarebbe uscito un bel cortigiano sul quale nessuno avrebbe avuto da ridire.

Innanzi tutto lui, un presidente del Consiglio che nella più classica logica della trasmissione verticale delle leve del potere dal capo supremo ai primi subordinati nella scala gerarchica, genuflesso al Nuovo Sovrano Mondiale, e un tempo sbandieratore di un innegoziabile sovranismo preelettorale ma ora rodomontesca caricatura di se stesso, replica ormai anche nei suoi modi comunicativi la provinciale acquiescenza italica al neopadrone del mondo. È lo smagliante romanesco della Garbatella, che riciccia e riesplode populistico in lui, per la gioia degli astanti, nei passaggi salienti di un comizio o di un discorso istituzionale.

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