Domenica sono andato a fare la vaccinazione nel centro vaccinale della Difesa, nella cittadella militare di Cecchignola, a Roma. Tutta l’operazione è stata estremamente ordinata, efficiente e cortese, dalla collocazione nell’ampio parcheggio al ritiro del certificato per la prima dose.

Era evidente che tutti gli operatori sorridevano sotto la mascherina nell’amministrare l’ordinatissimo padiglione brulicante di persone ben distanziate, soprattutto ventenni e trentenni, a occhio, che si sono prenotati nella open week del Lazio.

È stato perfino emozionante vedere questo gran battaglione di donne e uomini in mimetica e anfibi impegnato nella missione più pacifica che si possa immaginare. Veniva quasi voglia di fare il saluto militare.

L’unica nota stonata è che tutti mi davano del “tu”. «Come stai?», «lo puoi parcheggiare lì il motorino», «hai mai avuto reazioni allergiche?», «ti mandiamo un sms per il richiamo» e via dicendo. Io rispondevo «salve», «buonasera», «la ringrazio molto», e avrei voluto perfino aggiungere il grado in fondo alla frase, ma avevo il terrore di prendere sergenti per tenenti.

Non ho nessun problema con il “tu” e non mi sono minimamente offeso per l’approccio informale, per carità, ma mi è sembrato un po’ fuori fuoco.

Ho quasi 37 anni, due figli, lavoro da quindici anni, ho passato da un po’ il “mezzo del cammin di nostra vita” e mi sento, credo con buone ragioni, una persona di mezza età. Quando espongo questo ragionamento a chi è più avanti di me negli anni di solito ricevo un affettuoso lancio di pomodori.

Ma a prescindere da come mi sento io, che è un fatto irrilevante in questo contesto, è come vengo appellato dagli altri che conta.

Essere assimilato a un adolescente lusinga l’ego infantile che vive in me, ma deprime il me tutto intero, quello che deve prendere due giorni di ferie dopo una partita di calcetto, che si porta anche in vacanza il cuscino memory, che scrive ogni tanto libri che qualche editore ritiene sensato pubblicare.

Mentre pensavo alla tendenza all’infantilizzazione che si esprime anche nel linguaggio mi sono imbattuto nell’intervista su Repubblica alla fisica Chiara Marletto, che nel richiamo in prima pagina era titolata così: «Io, Chiara, giovane pirata della fisica».

A parte l’abitudine di chiamare le donne per nome nei titoli dei giornali, tema che lascio a chi ha competenza in merito, dall’intervista scopro che Marletto ha 34 anni, fa la ricercatrice a Oxford e ha scritto un libro, che poi è il motivo dell’intervista, in cui intende dare una rilettura ampliata delle leggi della fisica.

Cioè si tratta di una professionista strutturata, di altissimo livello, che fa ricerca in una delle università più importanti del mondo e sta dando un contributo di rilievo nel suo ambito, mentre dal modo in cui è presentata ho avuto l’impressione che fosse una neolaureata particolarmente talentuosa rispetto alla sua età.

Formalità e realismo

Sono su un terreno scivoloso, me ne rendo conto. Non voglio scortesemente suggerire che Marletto non sia giovane (lo so da un pezzo che i quaranta sono i nuovi trenta, i trenta sono i nuovi venti, la vita alta è la nuova vita bassa ecc.) ma dai dati mi sembra di poter concludere correttamente che si tratta di una donna che non da ieri gioca nel campionato dei grandi della sua professione, non di una persona alle prime armi che si sta affacciando sul mondo del lavoro.

Magari lei è perfettamente a proprio agio nell’essere rappresentata così e io troppo attaccato a vecchie etichette polverose, ma mi domando quand’è che si verrà considerati adulti quando anche il codice linguistico e comunicativo in uso sembra concepito per infantilizzare e spingere sempre più in là la soglia della vita adulta. Forse bisognerebbe iniziare a difendere il “lei”, non per formalità ma per realismo.

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