Ogni tanto una delle centinaia di morti sul lavoro conquista le prime pagine dei giornali. E allora si levano le grida degli ipocriti, tra i quali non mancano i dirigenti sindacali. È il momento magico dei "mai più". "Ora basta. Non si può continuare a morire di lavoro", ha detto la segretaria generale della Cisl Anna Maria Furlan tre anni fa. "Abbiamo annunciato la volontà di aprire una grande vertenza nazionale sul tema della sicurezza", le fa eco tre anni dopo il suo successore Luigi Sbarra. "È una situazione non più accettabile", aveva già tuonato il capo della Cgil Maurizio Landini un anno e mezzo fa. Giaculatorie destinate a replicarsi ritualmente. Stavolta gli onori della cronaca sono toccati a Luana D'Orazio, stritolata da un macchinario nella fabbrica tessile di Prato dove lavorava. Sebbene operaia, era giovane e bella e questo ha scatenato i pruriti mediatici, ma non le ha risparmiato la strisciante insinuazione che forse è stata lei a sbagliare, magari perché non era stata adeguatamente formata. Sta qui il primo vero scandalo. Tutti, politici, imprese e sindacati, fingono di non sapere che si muore sempre in modo stupido e assurdo: si cade da un'impalcatura, si viene inghiottiti dal macchinario, ti cade in testa una lastra di cemento. Ma ogni volta imprese e sindacati parlano a vanvera della necessità di maggiori controlli e di maggiore formazione. Il che sottintende l'idea veramente ripugnante che la vita di un operaio possa dipendere dalla sua destrezza, esperienza, preparazione e colpo d'occhio. O tutt'al più dall'efficienza di sensori e sistemi di sicurezza. Nessuno ha il coraggio di parlare della sicurezza intrinseca, cioè di creare le condizioni per cui sia materialmente impossibile cadere da quell'impalcatura o essere stritolato dal tornio. E non sarebbe difficile. Lo prevede la legge e dovrebbero essere i lavoratori, affiancati dai sindacati, a imporlo, senza aspettare gli ispettori. 
Ma qui si innesta il secondo scandalo. Si parla di leggi più severe ma le regole ci sono già, sono rigorose e le imprese, dopo aver ostacolato in tutti i modi la legge 81 del 2007 (500 pagine di prescrizioni per la sicurezza), la applicano con fastidio. Il problema, si dice, sono i controlli, gli ispettori del lavoro che mancano, il coordinamento con le autorità sanitarie eccetera. Vero. Ma intanto i sindacati che fanno? Perché non aiutano i lavoratori a organizzare la propria autodifesa quando c'è in gioco la vita? La verità è che i vertici sindacali sono prigionieri della propria ipocrisia. Lo schema di gioco è sempre lo stesso. Se c'è una morte in una piccola azienda non puoi mettere in croce il piccolo imprenditore e allora fai fare una dichiarazione di fuoco al segretario provinciale del sindacato mentre i vertici nazionali tacciono o, se costretti perché i giornali sbattono Luana in prima pagina, dicono "ora basta". Quando invece si muore in una grande azienda, magari quella della presidente di Confindustria (accadde con Emma Marcegaglia) o quella dei petrolieri Moratti per fare un altro esempio, si sta zitti, non si fiata. E così, anziché andare a spalleggiare i lavoratori, che hanno visto morire il loro compagno in un modo che potrebbe toccare anche a loro, e a dargli il coraggio di dire al datore di lavoro "ora basta", gli insegnano con il loro silenzio che non c'è nessuno a difenderli, che sono soli e devono tenersi le loro condizioni di lavoro. Fino a che i leader sindacali andranno a discutere di Pnrr a Palazzo Chigi anziché andare a difendere i lavoratori fabbrica per fabbrica, continueremo a contare i morti sul lavoro a centinaia.
 

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