Il governo Draghi è infine nato con un ampio supporto parlamentare e con il “cerchio magico” del presidente saldamente in sella per la gestione dei 209 miliardi del Recovery Plan. Molti commentatori hanno storto il naso di fronte alla distribuzione dei ministeri con il manuale Cencelli della lottizzazione e all’ammucchiata a sostegno di un governo che paradossalmente potrebbe risultare indebolito e paralizzato proprio dalla vastissima maggioranza che lo sostiene. Ma in realtà la complessità e la probabile inerzia dello scenario politico italiano potrebbero rivelarsi un’opportunità per Draghi e per il paese.

Recovery plan e poche riforme condivise 

Il governo Draghi nasce come governo d’emergenza che deve portare l’Italia fuori dalla pandemia e avviare un programma di investimenti per rilanciare la crescita. Certo, il successo di questo programma dipenderà anche dalla capacità di mettere mano a storture e inefficienze del nostro “sistema paese” in settori chiave quali la giustizia, la pubblica amministrazione, l’istruzione.

Da questo punto di vista è positivo che il governo si trovi ad operare in un contesto in cui ci sono risorse da utilizzare non da tagliare come avvenne per esempio con Monti.  Tuttavia, credo che non spetti a questo governo di avviare le riforme in profondità di cui c’è indubbiamente bisogno.

Da un lato per ragioni di tempo; dall’altro, perché si porrebbe un problema legittimità democratica se un governo che non trae il proprio sostegno parlamentare da un programma condiviso tra partiti politici, ma dall’urgenza sanitaria ed economica, utilizzasse questo sostegno per imporre riforme su cui non c’è accordo nella “maggioranza”.

Tale forzatura sarebbe possibile se si credesse nell’esistenza di riforme ottimali che un tecnocrate può (anzi deve) imporre a partiti e parti sociali recalcitranti. Ma le politiche ottimali non esistono, se non nei modelli degli economisti accademici; esistono invece scelte sulla distribuzione di costi e benefici di ogni riforma, sulle quali i partiti debbono chiedere un mandato politico dagli elettori di fronte ai quali saranno poi responsabili.

Insomma, la maggioranza eterogenea che sostiene il governo potrebbe rivelarsi un prezioso vincolo che consentirà a Draghi di non lanciarsi in pericolose fughe in avanti limitandosi a quelle riforme e politiche sulle quali il consenso è trasversale.

In Europa Draghi deve fare la differenza

Vuole questo dire che questo governo “di scopo” alla fine dovrebbe avere uno scopo tutto sommato limitato? Un governo incapace di lasciare il segno? Al contrario.

Se sul versante domestico sarebbe auspicabile che si evitassero forzature limitandosi a politiche condivise, Draghi ha la possibilità di incidere in modo drammatico negli sviluppi europei dei prossimi anni, con conseguenze profonde anche per il nostro paese.

Con l’uscita di scena di Angela Merkel e con un Emmanuel Macron che sarà inevitabilmente sempre più assorbito dalla campagna presidenziale del 2022, Draghi sarà la figura più autorevole e carismatica del Consiglio Europeo che nei prossimi mesi dovrà iniziare ad interrogarsi sulla forma da dare alle istituzioni europee dopo che due crisi in poco più di dieci anni ne hanno evidenziato tutti i limiti. Il contesto oggi è propizio. Le crisi hanno mostrato l’importanza dello Stato nel regolare e sostenere i mercati, garantendo crescita e convergenza; anche in paesi come la Germania, che hanno fino ad oggi strenuamente difeso lo status quo, si fa oggi strada un salutare dibattito, di cui è la prova proprio il piano Next Generaion Eu (inconcepibile solo un anno fa).

I cantieri europei sono innumerevoli; Mario Pianta ricordava i principali su Sbilanciamoci qualche giorno fa. In primo luogo, la riforma delle regole di bilancio, su cui siamo già intervenuti. Quando era presidente della BCE Draghi ha ripetutamente insistito sul fatto che le politiche di bilancio dovessero essere più attive e che gli investimenti pubblici fossero rilanciati. Le regole oggi sono di fatto sospese; l’Italia dovrebbe essere motore della discussione su come riscriverle prima che siano riattivate.

C’è poi la discussione sulla politica industriale, che è molto più che semplice politica della concorrenza, ma che non può limitarsi nemmeno alla creazione di “campioni europei”, come sembrano indicare Francia e Germania. L’Ue deve dotarsi di un insieme di strumenti che consentano l’interazione virtuosa di investimenti pubblici e privati al servizio di capitale umano, innovazione e progresso tecnico.

L’Italia sia motore del cambiamento europeo

Ma si può andare oltre, dalle proposte della Commissione sul sussidio di disoccupazione europeo e sul salario minimo alla discussione sul mandato della Bce, di cui proprio l’attivismo di Draghi negli anni della crisi ha mostrato i limiti; o ancora alle proposte sulla tassazione delle multinazionali la cui urgenza è stata dimostrata dagli eventi di questi mesi.

Le idee non mancano, molte già formalizzate in proposte della Commissione che giacciono nei cassetti del Consiglio da anni; quello che è mancato finora è un vettore politico, che potrebbe essere rappresentato dall’Italia di Mario Draghi.

È quindi questo il consiglio non richiesto per Mario Draghi: si limiti allo stretto necessario (che è già moltissimo) in casa nostra, preparando il terreno per un sano confronto politico sulle riforme nella prossima legislatura; e utilizzi tutto il suo prestigio per contribuire ad orientare quei cambiamenti in profondità di cui l’Europa ha bisogno.

Il fatto che al momento non sia stato nominato un Ministro per gli affari Europei sembra indicare che il Presidente del Consiglio sia conscio che su è su quel terreno che dovrà spendersi in prima persona.

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