L’affermazione del ministro Giancarlo Giorgetti secondo cui con Mario Draghi al Quirinale avremmo un «semipresidenzialismo di fatto» ha generato reazioni smisurate. Lui per primo sarà consapevole che il riferimento a De Gaulle è una iperbole puramente evocativa.

La Costituzione della Quinta Repubblica è frutto di circostanze eccezionali. Fu concepita e scritta in tre mesi (dal 3 giugno al 3 settembre 1958) da un comitato interministeriale presieduto dallo stesso De Gaulle e sottoposta al vaglio solo di un comitato consultivo composto da 39 persone, prima di essere approvata con un referendum dall’esito scontato.

L’elezione diretta del presidente, oggi considerata a ragione un elemento chiave, fu introdotta nel 1963, su iniziativa personale di De Gaulle con una procedura palesemente incostituzionale. Oggi anche i giuristi francesi tendono per conformismo, pudore o amor patrio, a rileggere più benevolmente quegli eventi, ma qualsiasi modesto e onesto interprete del diritto capisce che il cuore delle costituzioni liberali è proprio nella procedura di modifica della Costituzione, che nel caso in questione sta scritta tutta e solo nell’articolo 89, approvato pochi anni prima, che non prevedeva e non prevede (quindi esclude) quella modalità.

D’altro canto, l’elezione diretta del presidente, in sé, non garantisce gli straordinari poteri che spesso vediamo concentrati nella figura dell’inquilino dell’Eliseo. Quegli straordinari poteri sono prodotti dalla combinazione dell’elezione diretta, di alcune prerogative esplicitamente riconosciute al presidente dalla Costituzione, insieme a una legge elettorale che fabbrica larghe maggioranze parlamentari a vantaggio della forza politica più votata.

In passato è capitato tre volte che queste maggioranze fossero di orientamento politico opposto rispetto a quello del presidente, cosicché l’agenda di governo è andata nelle mani del primo ministro (la cosiddetta coabitazione). Ma dopo la riforma costituzionale del 2000, che ha allineato la durata dei mandati presidenziale e parlamentare, e ha stabilito che le elezioni parlamentari si debbano tenere subito dopo quelle presidenziali, questo rischio si è enormemente ridotto. Quindi, ad esempio, Macron, partendo dal 24 per cento dei voti presi al primo turno (che misurano più o meno l’ampiezza del consenso rivolto alla sua proposta politica in una logica proporzionale), alla fine ha ottenuto: la presidenza, la direzione del governo messa nelle mani di un suo fiduciario, una maggioranza del 60 per cento dei seggi parlamentari.

French President Emmanuel Macron reviews the troops during a military ceremony at the Invalides monument in Paris, Thursday, Nov.4, 2021 (Ian Langsdon, Pool Photo via AP)

Macron, il “caso limite”

Macron è un caso limite ma non isolato. Tra il 1965 e il 2015, i partiti di governo hanno goduto, in media, di un “premio” – implicitamente prodotto dal carattere maggioritario del sistema elettorale per la camera bassa – di 18 punti percentuali. Viene chiamato «semipresidenziale» per qualche altro accidente occasionale del dibattito pubblico francese, ma non è un sistema che presenti mezze misure. Fa chiaramente parte della famiglia dei sistemi parlamentari, in quanto per “dirigere il governo” bisogna avere il sostegno della maggioranza parlamentare. Al tempo stesso, favorisce la formazione di maggioranze a servizio del presidente, che sanciscono la sua assoluta supremazia.

Tornando a noi, fa sorridere sentire, dagli stessi pulpiti, un giorno ammirate esaltazioni del modello francese e il giorno dopo preoccupate omelie per l’eccesso di concentrazione dei poteri in capo a questo o a quello, o per la scarsa proporzionalità dell’attuale sistema elettorale. È ovvio che nemmeno “super Mario” potrà trasformare il Quirinale nell’Eliseo. Potrebbe però continuare a fare, forse addirittura con maggiore autorevolezza, quello che i presidenti della Repubblica italiani hanno già fatto negli ultimi anni, sulla base di condizioni esattamente opposte a quelle che rendono onnipotenti i presidenti francesi.

In quel caso, i presidenti governano perché sono i leader politici di maggioranze granitiche, aiutati da regole istituzionali che ulteriormente riducono i residui poteri di veto parlamentari. In Italia la forza dei presidenti sta nella fragilità delle maggioranze, nell’assenza di partiti e leader in condizione di dettare l’agenda. Se non temessi di apparire involontariamente sarcastico, potrei mostrare come il caso che più si avvicina a dove Draghi potrebbe arrivare è la Romania, più che la Francia. Ma è proprio la dichiarazione di Giorgetti a indicare la differenza che Draghi potrebbe fare, rispetto a Giorgio Napolitano e Sergio Mattarella, che pure hanno influenzato il corso degli eventi politici con scelte discrezionali di grande rilievo.

Sarebbe un presidente non solo tollerato, ma per la prima volta eletto per iniziativa del centrodestra, con il centrosinistra indotto a fare buon viso a un gioco che nel breve termine considera non conveniente. Quindi, di fronte a nuove fasi di difficoltà economico-sociale e fragilità del sistema politico, la sua capacità di “dare ordine al caos” sarebbe ulteriormente potenziata.

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