Le notizie provenienti dal palazzo di Giustizia di Prato confermano che anche Luana D’Orazio, l’operaia di 22 anni stritolata il 3 maggio scorso da un orditoio nella fabbrica tessile di Prato dove lavorava per pochi euro al mese, è morta per niente. I magistrati non hanno ancora trovato quale concreto interesse potessero avere i tre indagati per omicidio colposo a mettere a rischio la vita della ragazza. Però l’hanno fatto, e questa banalità dell’omicidio in fabbrica sta diventando una costante della quale bisognerà occuparsi.

L’avviso di conclusione delle indagini riguarda Luana Coppini, titolare dell’azienda Orditoio Luana, suo marito Daniele Faggi, considerato dagli inquirenti amministratore di fatto dell’impresa, e il tecnico Mario Cusimano, accusato di aver materialmente manomesso il macchinario.

In particolare, secondo la perizia tecnica, sarebbe stato smontato un cancello protettivo che avrebbe impedito fisicamente l’avvicinamento degli addetti al pericoloso macchinario. Luana D’Orazio si è invece avvicinata al punto da essere afferrata per i vestiti da una leva che l’ha trascinata dentro la macchina, dove è morta in pochi secondi per schiacciamento del torace, stando ai risultati dell’autopsia.

Il dettaglio più inquietante risulta proprio dalla perizia tecnica. La manomissione della macchina, che ha corrisposto all’esposizione dell’operaia a un pericolo mortale, avrebbe comportato un aumento della produzione della macchina dell’8 (otto) per cento. Però i tecnici incaricati dalla magistratura non sono riusciti a capire come questo aumento di produzione si potesse tradurre in un vantaggio economico per la titolare dell’azienda, visto che quel macchinario era destinato alla fabbricazione di oggetti di campionatura, un’attività per la quale, intuitivamente, i volumi di produzione non risultano decisivi.

Se i tre indagati avessero consapevolmente esposto l’operaio a un rischio evidente e grave, i magistrati dovrebbero accusarli non di omicidio colposo ma di omicidio volontario con il cosiddetto dolo eventuale, un concetto giurisprudenziale che fu evocato dalla pubblica accusa a proposito del tragico rogo della Thyssenkrupp di Torino (2007) ma che non fu riconosciuto nei tre gradi del giudizio. Ma è proprio questo il punto che va capito.

I tre indagati, nella stessa ipotesi accusatoria che comunque sarà valutata dai giudici, non hanno calcolato il rischio, non hanno soppesato il loro interesse economico con l’interesse dell’operaia 22enne di rimanere viva. Ma soprattutto non hanno neppure soppesato freddamente il danno che a loro stessi sarebbe venuto da un incidente, danno che adesso misurano in tutta la sua gravità: anni di processo per omicidio, una carriera imprenditoriale stroncata, probabilmente un danno economico irrimediabile.

Più stupidi che cattivi

Quello che può sembrare un ragionamento semplicemente cinico è invece il punto focale del tema della sicurezza sul lavoro. Nelle aziende italiane la cultura della sicurezza è talmente rozza che gli imprenditori non si fermano neppure a calcolare il danno che cagiona a sé stessi lasciar morire un lavoratore.

Se i manager di Autostrade per l’Italia fossero stati veramente cattivi avrebbero calcolato che far morire 40 persone sul pullman precipitato dal viadotto Acqualonga di Avellino (2013) non era un buon business a fronte dei 20mila euro risparmiati nella manutenzione del guard rail. Se gli stessi manager fossero stati davvero cinici avrebbero calcolato che risparmiare sulla manutenzione del ponte Morandi non era un grande affare a fronte del rischio di dover spendere molto di più per ricostruirlo e pagare i danni della tragedia del 14 agosto 2018.

Gli imprenditori italiani sono, purtroppo, più stupidi e ignoranti che cattivi. Con una carogna si potrebbe discutere, invece questa classe imprenditoriale che ci ritroviamo discute solo con i guru della comunicazione moderna che gli spillano denaro per inserire a ogni piè sospinto l’aggettivo “sostenibile” nelle loro brochure. E così ci troviamo ogni giorno a contare i morti, un migliaio l’anno grosso modo, come fossero un numero statistico, un fenomeno meteorologico.

Se invece i profeti confindustriali della sostenibilità facessero per una volta il loro dovere e andassero a vedere come si muore in fabbrica, caso per caso, scoprirebbero che quasi tutti muoiono come Luana D’Orazio, uccisi non dall’avidità del padrone ma dalla sua sciatteria, noncuranza, da una criminale mancanza di rispetto, dal disprezzo omicida per uomini e donne considerati razza inferiore, quella degli operai.

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